Corriere della Sera - La Lettura
«Donne e giovani salveranno l’Angola»
Attraverso la vicenda di Ginga, regina del Seicento, lo scrittore africano Agualusa sottolinea il ruolo positivo svolto dalla parte femminile della popolazione in una società corrotta e maschilista
«La mia patria è dove sono i miei piedi» dice Lobo, capo di una famiglia di zingari africani che aiuta il protagonista Francisco José da Santa Cruz a ritrovare l’amata Muxima tra le insidie di Luanda. Lobo, il lupo, è una figura minore di una bellissima storia appena tradotta in italiano: La regina Ginga (Lindau), dell’angolano José Eduardo Agualusa. Forse una storia è bella anche per questo: per la grandezza dei personaggi minimi. Scorrendo la biografia di Agualusa vien da pensare che la sua patria sia la stessa di Lobo. È nato in Africa, vive a Lisbona, ha il Brasile nel cuore. Si sente uno scrittore africano? E prima ancora: esiste l’Africa? O dovremmo dire le Afriche? «L’Africa è un continente complesso. Le sue letterature riflettono in parte quest’immensa diversità. Sono uno scrittore angolano di lingua portoghese».
Sembra quasi che i maggiori scrittori africani vivano fuori dall’Africa...
«È vero che numerosi scrittori delle nuove generazioni, in particolare i nigeriani, vivono all’estero. Ma non è sorprendente. Gli scrittori sono, prima di tutto, grandi lettori. Paesi che non possiedono una buona rete di biblioteche pubbliche, Paesi dove l’accesso ai libri è molto arduo, difficilmente produrranno molti scrittori. I giovani scrittori africani si stanno formando nella diaspora. Questo fatto non può essere visto come un problema».
Ma la lontananza non è rischiosa?
«I giovani scrittori africani sono colti e cosmopoliti, ma non hanno perso il legame con i loro Paesi. Anche l’Africa contemporanea è così: urbana, cosmopolita, attenta a tutto quello che accade nel mondo e allo stesso tempo rivolta alle proprie tradizioni».
L’Angola è retta da un regime familiar-autoritario. I suoi libri là hanno vita facile?
«Ho pubblicato vari libri in Angola, e il problema peggiore non è la censura. Ci sono giornali indipendenti, e anche nella stampa vicina al regime si possono trovare, a volte, opinioni molto critiche. Il problema è che questi giornali circolano esclusivamente nelle grandi città. La maggior parte delle persone non ha accesso ai giornali, e ancora meno ai libri».
«La regina Ginga» non è ambientato nell’Angola di oggi. Il passato è una finestra verso il presente?
«Ho ambientato il mio primo romanzo, La congiura — la cui trama si svolge a Luanda, capitale dell’Angola — negli ultimi anni del XIX secolo, per comprendere meglio il presente. Oggi, dopo aver scritto La regina Ginga, che si svolge nel XVII secolo, credo di comin- ciare a capire il mio Paese e le sue tragedie. La guerra civile angolana, che si è protratta quasi ininterrottamente dal 1974 agli anni 2000, si può comprendere solo partendo dalle drammatiche divisioni tra Luanda e il mondo rurale, che presero a manifestarsi nel Seicento».
Lei dedica il suo libro alle «donne africane che, ogni giorno, inventano il mondo».
«La regina Ginga è stata una donna singolare, che ha osato sovvertire le regole del suo tempo e della società in cui viveva. Ha reinventato il mondo. Del resto senza un contributo africano attivo il Portogallo sarebbe ben diverso. La regina Ginga ancora oggi perturba a tal punto che — nel recente film girato in Angola intorno alla sua figura — si omettono aspetti importanti del suo comportamento che scandalizzano la società maschilista — per esempio il fatto che lei avesse un harem composto da decine di uomini che faceva vestire da donna. Nonostante la società angolana sia violentemente maschilista, le donne svolgono un ruolo enorme, sono al centro di tutto».
Quando è stato in Angola l’ultima volta?
«Non sono più tornato a Luanda da quando, circa un anno fa, 17 attivisti pro-democrazia sono stati arrestati. La situazione si è deteriorata moltissimo da allora. Gli attivisti sono stati da poco rilasciati. Sono giovani idealisti e generosi. Persone straordinarie. Non sappiamo che cosa succederà nei prossimi mesi. Sappiamo, tuttavia, che saranno tempi difficili e inquieti. Ho due figli. Il più grande studia in Inghilterra. Il più giovane a Luanda. Mi piacerebbe passare più tempo in Angola, ma ho un po’ paura di avere problemi se mai volessi uscire dal Paese. Il regime angolano è pericoloso, ancora di più adesso che è disorientato e prossimo al collasso. Il presidente, José Eduardo dos Santos, è al potere dal 1979, quando il Paese era ancora, formalmente, uno Stato socialista. Ha guidato la transizione dal comunismo al capitalismo più selvaggio senza perdere il potere, e intanto si è arricchito. A parte la corruzione e la malagestione cronica, l’economia angolana si basa sul petrolio. Con la caduta del prezzo del greggio è andato tutto in rovina, ma invece di aprire il Paese alla democrazia, ascoltando le voci critiche, specie i giovani, e prepararlo al cambiamento, dos Santos si è aggrappato al potere. Negli ultimi mesi la repressione ha raggiunto livelli impressionanti, ma ciò non è bastato a impedire un aumento delle contestazioni e delle agitazioni sociali. Stiamo scivolando verso il baratro».
Molti Paesi, Italia compresa, fanno affari con il regime angolano. È giusto?
«Mantenere affari con una dittatura corrot- ta solleva una serie di questioni non solo di natura etica. Credo che molti di coloro che oggigiorno mantengono relazioni d’affari con il regime angolano dovranno giustificarsi in tribunale in un prossimo futuro».
L’Africa può sollevarsi da sola?
«Molti problemi sono fomentati dall’esterno, come sempre è successo. Credo che l’Africa debba sviluppare i propri meccanismi per risolvere i conflitti. Non possiamo aspettarci molto dai Paesi europei, che si sono sempre dimostrati più interessati agli affari facili, che ad appoggiare i movimenti a favore della democrazia e di una maggiore giustizia sociale. Questo non ci deve impedire di stringere rapporti con le società civili, in modo da cercare di influire su chi è al potere».
Tre libri e tre lavori musicali per capire l’Africa oggi.
«Se dovessi scegliere fra tre musicisti angolani direi la giovane, molto giovane, Aline Frazão, Paulo Flores e Waldemar Bastos. Per quanto riguarda la letteratura sceglierei Ruy Duarte de Carvalho e la poetessa Ana Paula Tavares. In Africa, più in generale, propongo per la musica la cantante maliana Rokia Traoré, il pianista sudafricano Abdullah Ibrahim, il virtuoso tunisino di liuto Anouar Brahem. Per la letteratura la scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie, il mozambicano Mia Couto e la scrittrice ghanese Taiye Selasi».
Quale luogo considera casa?
«Casa è il luogo dove sono le persone che amiamo. Desidero passare i prossimi mesi nella Ilha de Moçambique, in Mozambico, un luogo magico, con una storia incredibile, e credo che anche quella sarà la mia casa».
Un pensiero al «suo» Portogallo campione d’Europa.
«E uno alla Francia: è stata una finale tra due delle squadre più “africane”. Ed è servita per mostrare le enormi virtù dell’immigrazione. Gli africani stanno rivitalizzando il Portogallo, in termini demografici e culturali. Guardi ad esempio la musica: le due più importanti cantanti portoghesi di fado, Mariza e Ana Moura, due amiche molto care, hanno sangue africano, la prima è mozambicana, la seconda ha origini angolane. Il principale gruppo di danza di Lisbona, i Buraka Som Sistema, suona una musica di ispirazione angolana ed è composto da angolani. Il cantante più amato dai portoghesi, Anselmo Ralph, è angolano. Potremmo continuare. Anche adesso gli africani stanno reinventando il Portogallo».