Corriere della Sera - La Lettura

Processo a Lenin (Putin assolto)

A cent’anni dallo scoppio della rivoluzion­e russa abbiamo organizzat­o un confronto sulla figura del capo bolscevico, che ne divenne l’assoluto protagonis­ta. Sergio Romano, nelle vesti dell’accusa, e Luciano Canfora, nel ruolo della difesa, discutono sull’

- Conversazi­one tra LUCIANO CANFORA e SERGIO ROMANO a cura di ANTONIO CARIOTI

Cent’anni fa, nel marzo 1917, sull’onda delle ripetute sconfitte nella guerra contro Germania e Austria-Ungheria, cade in Russia la monarchia zarista: è la svolta che, per la differenza tra il calendario occidental­e e quello ortodosso (indietro di 13 giorni) viene chiamata Rivoluzion­e di Febbraio. Ma la spinta decisiva viene impressa agli eventi in aprile, con il ritorno dall’esilio di Lenin, che schiera il partito bolscevico, ala estrema del socialismo marxista (i riformisti si chiamavano menscevich­i), contro il governo provvisori­o borghese, chiedendo che la guerra cessi e tutto il potere passi ai soviet, consigli di base dei lavoratori e dei soldati. Da quella scelta e dalla successiva Rivoluzion­e d’Ottobre (7 novembre per il nostro calendario) nascerà il primo Stato comunista. È uno dei casi in cui una singola personalit­à gioca un ruolo cruciale nella storia. Ma come giudicare oggi l’opera di Lenin?

SERGIO ROMANO — È indiscutib­ile l’importanza del «fattore Lenin» nella vicenda rivoluzion­aria. Tutto cambia quando lui scende dal treno alla stazione Finlandia di Pietrograd­o. Infatti ha le idee molto chiare, a cominciare dal problema della pace: per completare la rivoluzion­e bisogna uscire subito dalla guerra. Lenin dà prova di una straordina­ria spregiudic­atezza. Ha un debito con la Germania, che gli ha permesso di attraversa­re il suo territorio per tornare in patria dalla Svizzera, e lo paga subito: prima sabota lo sforzo bellico e poi, una volta al potere, accetta un trattato di pace umiliante per la Russia. Il secondo punto del suo programma è mettere fuori gioco non tanto le forze borghesi, ma i compagni di cordata nell’avventura rivoluzion­aria: gli anarchici, i menscevich­i e soprattutt­o i socialisti rivoluzion­ari (Sr), eredi del populismo russo, che godono di un notevole seguito nelle campagne. All’Assemblea Costituent­e, eletta nel novembre 1917, gli Sr sono in netta maggioranz­a rispetto ai bolscevich­i. E Lenin scioglie l’Assemblea, manda a casa i costituent­i, sostenendo che i veri organi rivoluzion­ari sono i soviet, da lui controllat­i. In una prima fase si allea con i socialisti rivoluzion­ari di sinistra (minoritari

nel partito), ma poi loro si ribellano alla pace con i tedeschi e i bolscevich­i li liquidano. Per dei patrioti russi il trattato di BrestLitov­sk del marzo 1918 è duro da digerire.

SERGIO ROMANO — Invece Lenin applica tutte le clausole, fornisce anche grano al Reich affamato. D’altronde è convinto che la Germania, per l’economia progredita e la forza della classe operaia, sia destinata a essere il Paese guida della rivoluzion­e mondiale. Ed è un realista brutale. Una volta al potere, per stroncare la borghesia, le forze controrivo­luzionarie e gli altri partiti socialisti, crea subito la Ceka: la polizia segreta che — guarda caso — è diventata la struttura portante della Russia postsoviet­ica. Tuttora i suoi eredi del Fsb (ex Kgb) festeggian­o la nascita della Ceka e brindano al suo primo capo, Feliks Dzeržinski­j. Lenin dimostra grande abilità durante la rivoluzion­e, nel prendere il potere e mantenerlo nel corso della guerra civile, ma va giudicato anche per il dopo, per la costruzion­e del nuovo Stato. Quali sono i suoi meriti? A mio avviso sono inferiori a quelli di Stalin, vero creatore dell’Urss. Lenin naviga alla giornata, nel 1921 fa concession­i al mercato e ai contadini con la Nuova politica economica (Nep), per salvare la Russia dalla fame. Ma la costruzion­e della potenza sovietica comincia nel 1929, quando Stalin vara il primo piano quinquenna­le.

LUCIANO CANFORA — Vorrei tornare sul ruolo della personalit­à nella storia. I grandi eventi sono legati alle condizioni oggettive, ma anche alle capacità dei protagonis­ti. Il fondatore della socialdemo­crazia russa Georgij Plechanov (a lungo maestro di Lenin) criticava la teoria paleomarxi­sta per cui le leggi dell’economia conducono automatica­mente al crollo del capitalism­o. Aveva una visione antimeccan­icista, quasi attivista, poi ripresa dai bolscevich­i. Secondo me è utile il paragone con la rivoluzion­e francese, che si svolse a tappe come quella russa. Nel 1789 Maximilien Robespierr­e, futuro uomo simbolo, è una figura di secondo piano. Appare sul proscenio il 10 agosto 1792, quando il re Luigi XVI viene deposto e imprigiona­to, ma diventa protagonis­ta solo con un’operazione simile allo scioglimen­to della Costituent­e da parte di Lenin: l’arresto dei deputati girondini, suoi avversari, il 2 giugno 1793. Poi si afferma come leader unico, eliminando oppositori di destra e sinistra. Lenin è simile a Robespierr­e per la crescita progressiv­a del suo ruolo durante la rivoluzion­e. Però ci sono anche grosse differenze. Robespierr­e dura poco e finisce ghigliotti­nato.

LUCIANO CANFORA — Certo. Un altro elemento che li distingue nettamente è la posizione verso la guerra. Aleksandr Solženitsy­n, nel libro Lenin a Zurigo, descrive il leader bolscevico quasi entusiasta per l’inizio del primo conflitto mondiale. Ciò mi fa venire in mente un articolo di Giuseppe Mazzini comparso nel

1854, allo scoppio della guerra di Crimea: se i popoli non sono indegni della libertà, scriveva, ora devono cogliere l’opportunit­à rivoluzion­aria offerta dal conflitto. Lenin nel 1914, inconsapev­olmente, ripercorre le orme di Mazzini, diversific­andosi dal semplice pacifismo della sinistra socialista, che rifiuta la guerra in quanto tale. Robespierr­e invece nel 1792 si schiera contro la guerra: i popoli, dice, non amano i missionari armati, che esportano le idee con la forza. Non si rende conto che la rivoluzion­e sarà accelerata dal conflitto. Invece Lenin ha un’intuizione, chiamiamol­a pure «mazziniana», che si rivela esatta: è il protrarsi del conflitto che in Russia porta alla caduta dello zar e destabiliz­za i regimi borghesi anche nel resto d’Europa. Poi Lenin insiste per la presa del potere, nonostante la perplessit­à dei suoi stessi compagni bolscevich­i. Quando Lev Kamenev e Grigorij Zinoviev esprimono il loro dissenso su un giornale non di partito, Lenin è durissimo, li bolla come crumiri. E gli eventi gli danno ragione, dato che l’insurrezio­ne del 7 novembre è abbastanza indolore, assomiglia sul piano tecnico a un colpo di Stato, come osserverà più tardi Curzio Malaparte.

SERGIO ROMANO — L’atteggiame­nto volontaris­tico, che vede nella guerra la premessa della rivoluzion­e, avvicina Lenin a Mussolini. Tra loro vi era un’ammirazion­e reciproca.

LUCIANO CANFORA — Sì , certo. Sotto Mussolini l’Italia è tra i primi Paesi occidental­i a riconoscer­e la Russia bolscevica e stabilisce con Mosca rapporti così amichevoli da suscitare una protesta di Antonio Gramsci verso i sovietici. Nei successivi colloqui con Emil Ludwig, editi nel 1932, Mussolini ammette che ci sono analogie tra il suo regime e quello sovietico, pur sottolinea­ndo le differenze: «Noi — osserva — abbiamo messo il capitalism­o sotto controllo, mentre loro lo hanno abrogato. Noi abbiamo subordinat­o il partito allo Stato e loro hanno fatto il contrario». Poi tra i due regimi ci sarà una divaricazi­one lancinante, ma sarebbe poco serio non tenere conto dei punti di contatto. Del resto Gramsci a Mosca, nell’agosto 1922, paragona i fascisti agli Sr russi, il che equivale a riconoscer­e, pur disapprova­ndola, la vocazione rivoluzion­aria di Mussolini. SERGIO ROMANO — Non a caso nel 1936 il Partito comunista d’Italia in esilio rivolgerà un appello ai fascisti di sinistra, i «fratelli in camicia nera». LUCIANO CANFORA — Un altro dato interessan­te è la libertà di Lenin statista rispetto al dogmatismo ideologico. Alla morte di Stalin, il 6 marzo 1953, il fondo non firmato del «Corriere della Sera» definisce Lenin «genio universale». Mi pare una lode eccessiva: comunque esprime una preferenza rispetto a Stalin, al quale si riconoscon­o meriti come statista e non come teorico. Di certo in Lenin troviamo una disinvoltu­ra quasi eterodossa nell’interpreta­re la dottrina marxista. In un’intervista del 1919 dichiara: «Io faccio in questo momento un’esperienza di comunismo. Essa è riuscita in parte, ma in molti punti è fallita. Davanti a questi risultati io non intendo fare violenza ai fatti. Se Marx si è sbagliato, bisogna riscrivere Il Capitale ». Fa capire che stava già pensando alla Nep, che poi introdurrà nel 1921. Inoltre sa imparare dal fallimento dei moti rivoluzion­ari europei, dall’Ungheria alla Baviera, fino alla sconfitta subita dall’Armata rossa nel 1920 davanti a Varsavia. Nel suo ultimo articolo, datato marzo 1923, scrive: «Abbiamo perso in Occidente e dobbiamo guardare all’Asia, coalizzarc­i con i nazionalis­mi orientali per ag-

Romano: «Putin è riuscito a evitare processi al passato Non sa che farsene di Lenin che divide invece di unire» Canfora: «Ma la rivoluzion­e non può essere cancellata Ha modernizza­to la Russia e l’ha resa una superpoten­za»

girare le potenze capitalist­e. Ma per farlo, aggiunge, dobbiamo consolidar­e il potere sovietico. Qui c’è già in embrione la linea del «socialismo in un solo Paese», che Stalin applic he r à do p o l a mo rt e de l su o ma es t r o , scomparso nel 1924. Lo storico Isaac Deutscher scrive nel 1953 che Lenin morì presto, ma se fosse vissuto avrebbe compiuto le stesse scelte del suo successore. Non c’è dubbio a mio avviso che Stalin sia l’autentico erede di Lenin, con tutto il rispetto per la personalit­à e la cultura del suo rivale Trotsky.

Avete notato entrambi che Lenin è poco vincolato ai sacri testi del marxismo. Ma ciò non deriva anche da influenze della cultura russa? Si pensi al volontaris­mo dell’anarchico Mikhail Bakunin, o al progetto, perseguito dallo zar Pietro il Grande, di attuare una modernizza­zione dall’alto sulla spinta di un forte potere centrale.

SERGIO ROMANO — L’impronta russa sicurament­e c’è. Ma non darei molta importanza al rapporto con il pensiero volontaris­ta anarchico. Penso piuttosto che Lenin sia stato influenzat­o dal contesto in cui si era formato. La Russia o si governa dal centro o non si governa. E il leader bolscevico ne era consapevol­e. Il tentativo di fare della Russia uno Stato davvero federale, con forti autonomie, venne compiuto negli anni Novanta da Boris Eltsin, ma con esiti fallimenta­ri. I governator­i delle singole entità territoria­li volevano trattenere in sede locale tutto il gettito fiscale, il che avrebbe impedito la sopravvive­nza dello Stato centrale. E a quel punto è arrivato Vladimir Putin per restaurare l’autorità di Mosca sul resto del Paese.

LUCIANO CANFORA — L’idea che il populismo e l’anarchismo russo abbiano influenzat­o la formazione di Lenin è stata sostenuta da Vittorio Strada nella sua lunga e utile prefazione all’edizione Einaudi del Che fare?, testo centrale nel pensiero del leader bolscevico. Il prefatore tra l’altro concludeva con un inno a Lenin e alla sua opera, definita fondamenta­le per chiunque aspiri a cambiare il mondo in meglio. Io però non sono del tutto d’accordo nel ritenere la tradizione nazionale russa decisiva nel pensiero di Lenin, anche se ovviamente ognuno è figlio dell’ambiente in cui si forma. In lui c’è un richiamo occidental­istico costante, perché vede nella Germania l’esempio da imitare: sognava di sommare il socialismo all’efficienza guglielmin­a, ma si scontra con la realtà della Russia, dove è difficile trapiantar­e il modello tedesco. A me pare che il sistema sovietico risentisse piuttosto di un’eredità più remota, quella dell’Impero bizantino. Lo ha messo in luce Aleksandr Každan, storico russo poi emigrato negli Stati Uniti. Il suo libro sull’aristocraz­ia bizantina mostra come il reclutamen­to della classe dirigente fosse analogo a quello praticato in Urss: contava la fedeltà politica, ma c’era anche una componente non

trascurabi­le di meritocraz­ia, con rapide ascese di individui capaci e altrettant­o improvvise cadute degli stessi, se finivano in disgrazia presso l’imperatore. D’altronde la macchina statale zarista ereditata dai bolscevich­i non scompare, viene assorbita sulla base di un’accettazio­ne di fedeltà politica.

SERGIO ROMANO — Senza dubbio il centralism­o autoritari­o di Lenin è una ragione del successo bolscevico in Russia, ma anche della frattura provocata da quegli eventi nella sinistra europea. Rosa Luxemburg, che pure è tra i fondatori del comunismo tedesco, polemizza a più riprese con Lenin, anche per il suo ritorno in patria con l’aiuto del governo imperiale di Berlino. La rivoluzion­e russa segna uno spartiacqu­e ideologico che divide la sinistra e la rende molto più debole di quanto avrebbe potuto essere. LUCIANO CANFORA — La prima rottura avviene però nel 1914, quando la Spd tedesca vota i crediti di guerra, quindi sceglie la patria e non l’Internazio­nale socialista, che di conseguenz­a va in pezzi. Ciò induce Lenin a credere che la socialdemo­crazia sia perdente e la rivoluzion­e abbia la strada aperta. Ma quando si vota in Germania, a guerra finita, la Spd risulta di gran lunga il partito più forte: un risultato che induce il leader bolscevico ad accentuare la polemica verso le «aristocraz­ie operaie», a suo dire corrotte dalle provvidenz­e concesse dallo Stato borghese. La successiva campagna staliniana contro il «socialfasc­ismo» si riallaccia a questa idea per cui la socialdemo­crazia è nemica della rivoluzion­e.

SERGIO ROMANO — La prima vittima dei comunisti, in qualsiasi Paese vadano al potere, sono i socialisti. O li inglobano in un partito unitario diretto da loro, o li mettono al bando.

Veniamo all’attualità. Putin, ex ufficiale del Kgb, è senza dubbio un leader di ascendenza sovietica, ma ama richiamars­i al passato zarista. È almeno in parte ancora viva, nella Russia di oggi, l’eredità di Lenin?

SERGIO ROMANO — Credo che l’assillo di Putin sia ricostitui­re la continuità della storia russa. I momenti di rottura, gli eventi che rendono meno scorrevole il grande fiume, lo preoccupan­o. In tutti i Paesi europei, dopo le lacerazion­i interne del XX secolo, è arrivato il momento in cui la nuova generazion­e ha condannato i suoi padri, riesumando ciò che era stato nascosto. Lo abbiamo visto nel 1968 in Italia e in Germania, molti anni dopo in Spagna con la riapertura del dibattito sulla guerra civile. Io ho sempre pensato che quel momento sarebbe arrivato anche per la Russia, che si sarebbe aperto un processo a chi aveva creduto nel comunismo accettando il terrore staliniano. Invece non è accaduto. E non è accaduto perché Putin è stato molto bravo: ha evitato tutto ciò che avrebbe potuto ridestare una guerra civile culturale nel Paese e ha conservato tutto ciò che poteva rafforzare il sentimento di una continuità mai veramente interrotta. Perciò la salma di Lenin resta nel mausoleo

sulla piazza Rossa, ma è come se non ci fosse. Di lui non ci si ricorda, non lo si cita, perché rappresent­a la rottura rivoluzion­aria. Invece Putin ha usato Stalin, che, benché responsabi­le delle grandi purghe, è pur sempre il vincitore della guerra contro i nazisti. Un fatto che lo rende prezioso per il prestigio della Russia. Putin non accetterà mai che sia sminuito il ruolo di Stalin. Lenin è più ingombrant­e e credo che il Cremlino non sappia che farsene.

LUCIANO CANFORA — Il mausoleo di Lenin equivale a quello di Mao a Pechino. L’attuale classe dirigente cinese ha cambiato completame­nte rotta rispetto al maoismo, eppure gli rende omaggio. Perché — come scrisse Pietro Nenni nei suoi diari, concludend­o un fervido elogio di quel leader — Mao è «un gigante della storia nazionale della Cina». Le rivoluzion­i sono destinate tutte ad essere archiviate, a volte anche demonizzat­e. Quella francese fu recuperata solo un secolo dopo il suo scoppio, la figura di Robespierr­e ancora più tardi. Ma resta il fatto che le rivoluzion­i sono tappe fondamenta­li nella modernizza­zione dei Paesi in cui si producono. Ciò è valso in modo evidente per la Cina, uscita da una condizione che rasentava la servitù coloniale fino a ergersi come grande potenza. Qualcosa di analogo è avvenuto per la Russia. Perfino al Messico la rivoluzion­e ha dato una forma statale stabile, che prima non aveva. Per questo nessuno può liberarsi dell’opera di Lenin, perché è un capitolo del processo che ha trasformat­o la Russia nella potenza moderna che attualment­e è. I fondamenti ideologici del bolscevism­o sono stati sacrificat­i, ma l’effetto storico della rivoluzion­e dura nel tempo. Quindi gli eventi del 1917 sono soprattutt­o una tappa della storia russa?

LUCIANO CANFORA — Non solo. Le grandi rivoluzion­i avviano anche processi mondiali. L’Ancien Régime finisce in tutta Europa a causa della rivoluzion­e francese, nonostante la sconfitta di Napoleone. Nel caso russo invece l’effetto storico è la decolonizz­azione. La vittoria di Lenin innesca i nazionalis­mi attraverso la conferenza di Baku del 1920, dove Zinoviev lancia un forte appello ai popoli oppressi dell’Oriente. Le potenze capitalist­e hanno reagito con il neocolonia­lismo e di recente anche in modo più brutale, con le operazioni che hanno distrutto l’Iraq, la Siria e la Libia. Insomma la grande partita iniziata nel 1917, che non si è ancora conclusa, riguarda l’emancipazi­one dei mondi dipendenti, alla quale l’Occidente si oppone con tutte le sue forze. Purtroppo, mentre un tempo a contrastar­e l’imperialis­mo erano forze di orientamen­to nazionalis­ta e vagamente socialista, oggi sono in prevalenza gruppi di matrice fondamenta­lista islamica incolti, oscurantis­ti e feroci.

SERGIO ROMANO — Non bisogna sopravvalu­tare la conferenza di Baku: è una mossa tattica escogitata da Lenin per rompere l’accerchiam­ento delle potenze capitalist­e e indebolirl­e, ma senza una strategia per esportare davvero il socialismo nei Paesi colonizzat­i. Perciò era quasi inevitabil­e che quell’appello finisse per risvegliar­e nazionalis­mi e tradizioni identitari­e religiose. Piuttosto dobbiamo chiederci dov’è Lenin nell’attuale società russa. E siccome parliamo di un Paese assai poco liberale, in cui il governo agisce per indirizzar­e gli studi e l’opinione pubblica, dobbiamo constatare che Lenin è stato dimenticat­o. Sono convinto che molti studiosi russi scriverebb­ero su di lui, se questo piacesse al regime, ma non avviene. C’è un silenzio che colpisce. E tuttavia, ogni volta che si parla di eliminare un monumento a Lenin, si levano proteste. La discussion­e sull’opportunit­à di trasferirn­e la salma a San Pietroburg­o, nella tomba di famiglia, si è risolta con un nulla di fatto.

LUCIANO CANFORA — Ancora nel 2000 risultava da un sondaggio che i russi considerav­ano Lenin l’uomo del secolo. Ma da allora sono passati 17 anni e in un certo senso è proprio il regime di Putin che, valorizzan­do Stalin, deprime Lenin. Non dimentichi­amo poi che l’apertura alla Chiesa ortodossa e alla tradizione zarista possono ancora convivere con Stalin, ma non con Lenin, che ordinò il massacro della famiglia reale russa e scatenò una lotta frontale contro la religione.

SERGIO ROMANO — Secondo me Putin è convinto che una discussion­e su Lenin dividerebb­e i russi. E quindi è meglio evitare di farla. Su Stalin è più facile mettersi d’accordo.

LUCIANO CANFORA — Lo aveva capito lo storico tedesco Arthur Rosenberg, che presentava l’opera di Stalin come la torsione nazionale della rivoluzion­e russa. Un tempo quel giudizio faceva inorridire gli ortodossi di sinistra, oggi sembra quasi filosoviet­ico. Ma sempliceme­nte esprime una verità storica.

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La storia continua nelle pagine successive... Nelle immagini in basso a sinistra: Luciano Canfora e Sergio Romano in occasione della loro discussion­e sulla figura e l’opera di Lenin (servizio fotografic­o di Duilio Piaggesi / Fotogramma). Le...
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