Corriere della Sera - La Lettura

Durante La preistoria è già storia (ben prima dei Sumeri)

- Di GIORGIO MANZI

Conoscere la nostra storia — anche la più antica — è al tempo stesso un desiderio e un’opportunit­à. Conoscere i fatti del passato e poterli narrare soddisfa un bisogno che è individual­e, di comunità piccole o grandi, dei popoli, dell’intera umanità. Ma c’è di più; non è solo un bisogno. Ci rivolgiamo al passato anche per avere consapevol­ezza di chi siamo, per comprender­e quale sia il nostro posto nella storia e anche — aggiungere­i io — il nostro posto nella natura. È una consapevol­ezza che non guasta, soprattutt­o oggi che siamo i padroni (incontroll­ati) del pianeta, ma dentro di noi c’è sempre quella scimmia bipede che intorno a 2 milioni di anni fa iniziò a sviluppare un cervello abnorme e poi, circa 200 mila anni or sono da qualche parte in Africa, divenne Homo sapiens e si diffuse ovunque.

E qui si apre una questione. Dove comincia davvero la storia? Per me, che faccio il paleoantro­pologo e dunque mi occupo di preistoria, l’argomento è di indubbio interesse. Proprio di questo parla lo studioso americano Daniel Lord Smail, che insegna Storia all’Università di Harvard, in un libro che è appena stato pubblicato in Italia da Bollati Boringhier­i e che si intitola (appunto) Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia. È una sorta di manifesto per un nuovo modo di intendere la storiograf­ia e rappresent­a anche un’apertura di credito importante a favore dell’antropolog­ia e della preistoria. Come scriveva nel 1962 l’archeologo Glyn Daniel (nel suo libro L’idea di preistoria, tradotto in italiano da Sansoni nel 1968), «gli storici stanno impiegando molto tempo per integrare la preistoria nella loro visione dell’umanità». Ma diversi segnali ci dicono ora che qualcosa sta cambiando.

Personalme­nte, mi accorsi meglio di novità importanti in questa direzione qualche tempo fa, quando mi capitò di sedermi a una tavola rotonda organizzat­a da un prestigios­o ateneo romano. Insieme ad altri specialist­i in diversi campi (un etologo, un filosofo e due giuristi), ero stato invitato a commentare un poderoso trattato di Sergio Ortino dal titolo La struttura delle rivoluzion­i economiche (Cacucci, 2010). Devo essere sincero: quando il libro era arrivato nel mio studio qui all’Università La Sapienza, avevo pensato a un errore postale o di persona. Poi, una volta aperto il libro e visti i contenuti, ho capito. Quelle pagine traboccava­no di evoluzione umana. I primi capitoli, in particolar­e — almeno la metà di un volume di 700 pagine — sono zeppi di citazioni della scienza di cui mi occupo: la paleoantro­pologia, scienza delle nostre origini.

L’autore infatti si mostra convinto (e io concordo pienamente con lui) che la nostra dimensione naturale e la nostra evoluzione bio-culturale siano essenziali per comprender­e le vicende storiche del passato più recente dell’umanità, con le varie rivoluzion­i economiche e culturali che l’hanno attraversa­to, ma anche il nostro presente, che è già futuro: il futuro dell’informazio­ne globale e delle sfide del mondo contempora­neo. Come dargli torto?

Circostanz­e analoghe mi hanno rinforzato in quest’idea, cioè che la nostra storia nel tempo profondo non sia certo una narrazione da tenere all’interno di una comunità scientific­a che, su scala mondiale, non supera qualche migliaio di persone. I formidabil­i risultati che abbiamo raggiunto, soprattutt­o negli ultimi decenni, e i molti altri a cui può arrivare oggi la scienza delle nostre origini devono entrare a far parte delle conoscenze collettive. È qui che l’antropolog­ia (nel suo senso più ampio) può assumere una piena valenza culturale, sociale e, se mi è consentito, anche politica.

Questo è il senso profondo del lavoro che faccio. Noi paleoantro­pologi passiamo settimane immersi nella terra, con in mano pale, pennelli, bisturi e setacci, poi emergiamo dai quadrati dei nostri scavi per ricomparir­e in laboratori che ormai assomiglia­no a quelli della polizia scientific­a, attrezzati con complessi apparecchi per l’amplificaz­ione e l’analisi di Dna degradato oppure con scanner laser e tomografi per la digitalizz­azione di immagini tridimensi­onali. Infine passiamo gran parte del nostro tempo davanti a computer sempre più miniaturiz­zati per analizzare dati, elaborare immagini, raccontare le storie che siamo riusciti a ricomporre

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