Corriere della Sera - La Lettura

Psico-filosofia della sedia «Uno strumento per essere»

- Di RICCARDO BLUMER

Architetto e designer, Riccardo Blumer partecipa all’edizione emiliana del Festival dei Sensi. Qui anticipa alcuni temi del suo incontro dedicato all’oggetto (che non è un oggetto) che definisce l’homo sedens

La sedia è un sostantivo che indica un oggetto con simpatiche «assonanze» l i nguisti co- s emantiche verso una parte del corpo che a seconda della sua consistenz­a muscolare assume numerosiss­imi aggettivi qualificat­ivi, per la più incredibil­e attenzione estetica a una parte del corpo che credo neanche gli occhi abbiano mai avuto.

Questo «luogo», per motivi assai importanti lontano dal naso e dalla bocca, ci rende l’animale fisicament­e più forte della terra, capace di percorrere distanze superiori a qualsiasi altra specie in una posizione fisicament­e molto efficace per muoversi, ma di assoluta scopertura e pericolo per le parti delicate e non danneggiab­ili ed asportabil­i del corpo — cuore, fegato, stomaco, ecc. Questi organi, tanto per dire cose che mi interessan­o e su cui lavoro soprattutt­o a scuola, smentiscon­o nell’architettu­ra animale la legge di simmetria — ad esclusione dei reni e dei polmoni — e sono singolarme­nte vincolanti per il funzioname­nto vitale, che rimane invece possibile senza gli arti e, ad esempio, i capelli.

Ora, si aprono diversi filoni di pensiero sul sostantivo citato in apertura, a cui associo, per esperienza questi altri: orma, impronta, simbolo, fatica, posizione, riposo, appoggio, trono, fisico, struttura. Se volessi coniugarli sintattica­mente con un ritornello, itinerante nella mia testa, che mi piace, la frase è: «La sedia è un’impronta del corpo, un simbolo fisico dell’uomo, ne racconta il riposo attraverso un appoggio che non permette di addormenta­rsi, tra un’orma intenziona­le della nostra struttura morale e un oggetto di potere (trono)».

La semplice panca necessiter­ebbe di frasi meno complesse. Lo sgabello invece si difendereb­be abbastanza bene.

Ora, andare avanti a scriverne, dipende da cosa sei e cosa fai nella vita. Io ho progettato e costruito con meraviglio­sa e misteriosa passione, tra le altre cose, sedie. Quindi mi fermo e comincio: una sedia può avere da un minimo di tre appoggi a un numero infinito, ma le cose cambiano molto. Con tre punti devo dare loro una equidistan­za distributi­va precisa perché se solo ne avvicino due il rischio di disequilib­rio aumenta in modo esponenzia­le, allontanan­dosi dal triangolo e avvicinand­osi geometrica­mente a una linea che per sua natura ruota sull’asse suo stesso medesimo; invece con infiniti punti (per loro natura adimension­ali), in un area di buon senso e s te s a c i rca come l e nostre chiappe schiacciat­e su un piano dal peso della parte superiore del corpo, basta un granello di sabbia e tutto diventa fastidiosa­mente instabile. Quattro appoggi funzionano abbastanza bene riducendo la possibilit­à di ribaltamen­to dovuta alla formazione di assi di rotazione, mentre cinque, sei, sette, ecc. provocano il sentimento di qualche cosa di inutile. Magari non il granello di sabbia, ma anche con «poco o niente» l’appoggio diventa fastidioso e ci tocca muovere le articolazi­oni e quant’altro come dei contrappes­i per garantire al sistema di fermarsi. Da soggetti a strumenti.

La schiena (lo schienale) è il problema «altro». Con le gambe è più facile, una volta appoggiato il sedere a un’altezza di circa 40 centimetri da terra, liberarle dal loro ruolo statico di sostegno con resis te nza pr i nci pal e a compressio­ne e quindi molto si risolve; ma la schiena è appunto più difficile. A questa parte del corpo sono vincolati quegli arti che sono la macchina più potente che abbiamo dopo la parola, ovvero le mani (posso farti male, ma offenderti può creare danni maggiori… così come tra accarezzar­e o dirti che ti amo più della mia vita, ma senza di esse con piedi e denti sarebbe stato difficile inventare gli aquiloni).

Le mani si muovono tridimensi­onalmente nello spazio creando sbilanciam­enti garantiti oltre che dalle spalle, dalla schiena e dal peso della testa (a sua volta necessaria­mente libera per sovrainten­dere); non ci si siede per fare qualche cosa con i piedi o con le gambe, se non provare un paio di scarpe nuove.

Scrivere è forse una delle più belle e importanti (mangiare, intagliare casse di orologi, montare piccole cose, disegnare con riga e squadra, fare di conto, cucire, eccetera) attività che ci hanno trasformat­i in esseri umani. Lo schienale deve essere quindi sufficient­emente generoso per fermare tutto ciò.

Una sedia serve indifferen­temente maschi e femmine adulti con altezze e relazioni proporzion­ali tra le parti generosame­nte diverse ma deve misurarsi con un problema: fare mangiare tutti su un tavolo con un unico livello di appoggio. Questo (mangiare) è un verbo che ho dimenticat­o nell’aggiunta di parole su cui ho formulato la frase che le coniuga tutte. Mangiare assieme attorno a un piano «comune» è una delle attività primarie che trasforma la sopravvive­nza in cultura (senza, come oggi ci piace tanto, far diventare il cibo automatica­mente necessario a ciò). Una sedia generalmen­te si sposta con la forza autonoma del soggetto a cui è indirizzat­o l’uso. Un bambino non sposta quella dei grandi se non spingendol­a a fatica, un anziano ci deve mettere le ruote. Quelle che non si spostano sono generalmen­te nei cimiteri (valore simbolico) o nelle città (valore antifurto) — con l’incredibil­e esclusione dei parchi di Parigi.

In ultimo, la forma. In questa piccola parola la risposta finale e determinan­te di tutto il processo, i materiali, le dimensioni. La sedia è un progetto, attività di pensiero su basi astratte basata sulle conoscenze della complessit­à del mondo, delle ideologie, della psicologia come strumento, dei processi tecnici di trasformaz­ione e lavorazion­e, della paura e della solitudine, del piacere e della responsabi­lità. Tutto il resto, nei limiti non facili che io come tutti abbiamo, ne consegue. Ecco, in conclusion­e, la vera domanda come credo la potrebbe porre il filosofo Carlo Sini (a cui devo molto, come allo storico eclettico Luigi Zanzi): se la sedia non è un oggetto ma uno strumento per essere, che forma deve avere?

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