Corriere della Sera - La Lettura
Visioni del passato: la Bologna di Boltanski
Arredi urbani Un progetto espositivo articolato, il cui percorso ideale risale al 2007, quando l’artista realizza qui un drammatico riallestimento della strage di Ustica. Ora installazioni e opere si muovono tra il Mambo, l’ex bunker del Giardino Lunetta
Un aforisma di Ennio Flaiano: «Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato». Potremmo servirci di queste parole per provare a decifrare l’avventura di Christian Boltanski, che verrà celebrata a Bologna in un grande evento espositivo — curato da Danilo Eccher — disseminato in diversi luoghi della città. Dal centro alla periferia. Un percorso il cui incipit ideale risale a molti anni fa.
Bologna, 2007. L’artista realizza una drammatica opera per il Museo per la Memoria di Ustica: i relitti del DC9 precipitato il 27 giugno 1980 sono circondati da 81 luci (una per ogni vittima della strage) che si accendono e si spengono al ritmo di un respiro; da una carrellata di specchi ciechi; da frasi sussurrate; e da oggetti ritrovati in mare. Boltanski: «Mi hanno sempre colpito quelle orrende situazioni nelle quali una persona muore lasciando a terra qualcuno che l’aspetta e che non la vedrà mai arrivare. Eppure, quando una persona si rende conto che sta per morire, pensa all’avvenire, non al passato».
Il progetto bolognese si snoda attraverso un itinerario scandito in diversi siti. Il nucleo centrale è costituito dall’antologica al Mambo, che espone oltre venti installazioni (dalla metà degli anni Ottanta a oggi): come Regard-Eyes, con immagini sfocate di volti anonimi stampate in bianco e nero su tessuto trasparente, che diventano fantasmi; e come Volver, un’alta piramide avvolta da coperte dorate, che richiamano le scene dei soccorsi prestati ai migranti. Ancora Boltanski: «Quando lavoro a una mostra, studio lo spazio espositivo e immagino in che modo i visitatori si sposteranno al suo interno. Il Mambo mi ricorda una chiesa: ci sono un’entrata, un altare in fondo, le cappelle laterali. Ho pensato a un’ambientazione immersiva. Le sale sono avvolte in una semi-oscurità rischiarata da piccole fonti luminose».
Ovunque si respira il peso della transitorietà dell’esistenza umana. Un concetto cui si ispirano anche l’installazione sistemata nell’ex bunker del Giardino Lunetta Gamberini, che riesuma corpi di mute presenze; e la performance Ultima, che trasforma una sala del teatro Arena del Sole in un campo costellato di affioramenti — oggetti, voci, accadimenti sonori — essenziali e coinvolgenti. E ancora, nel mese di settembre, Boltanski si farà regista di un esperimento di arte diffusa: nell’ex parcheggio Giuriolo artisti conosciuti ed esordienti saranno invitati a realizzare multipli da donare al pubblico, ironizzando sui processi creativi.
Momento inatteso di questa sorta di «occupazione urbana», infine, è Billboards: sequenze di sguardi di giovani vite spezzate, riprodotte su numerosi tabelloni pubblicitari collocati lungo le principali strade periferiche della città, come inciampi visivi, che determinano discontinuità di senso e sembrano porre domande ai passanti.
Nell’accostarsi, i diversi capitoli di questa mostra-kolossal svelano la coerenza del discorso poetico di Boltanski. Che, pur sulle orme dei protagonisti delle avanguar- die primonovecentesche, muove sempre dal rifiuto di ogni ideologia progressiva. Egli è convinto che il presente, in sé, sia difficile da afferrare; e il futuro sia un’invenzione senza fondamento. L’unica dimensione temporale che ci appartiene davvero e che possiamo conoscere con qualche certezza è il passato: attraverso il ricordo, agiamo su di esso e lo rendiamo di nuovo possibile — ma diverso. Solo una consapevole interrogazione intorno a quel che non è più può permetterci di accedere al qui e ora.
In quest’ottica, decisiva la funzione della memoria. Che è, aveva osservato Freud, come un «notes magico» segnato da iscrizioni, da sovrapposizioni e da cancellazioni. Questo determina in noi disagio, inquietudine. L’oblio, perciò, si dà come l’altra faccia del ricordo, evocando una danza tra pulsioni da collezionare e rimozioni necessarie. Tra questi due poli si modula il progetto estetico di Boltanski. Che agisce non come un testimone, ma come un interlocutore del passato: dalla Shoah a tante altre tragedie del Novecento. L’opera d’arte, secondi lui, deve farsi riscrittura del già-stato. Territorio aperto all’irruzione dei sussurri della Storia. Che viene accolta attraverso tante tessere estratte da un mosaico impossibile da riarticolare. «La vita genera più sentimenti di quanto possa fare l’arte, che è come una frase sottolineata. Tutto quel che faccio è solo arte. Ma mi piace illudermi che, di fronte a essa, il visitatore pensi che sia vita».
Archeologo sapiente nell’estrarre dai sottosuoli di quello sterminato giacimento che è la memoria collettiva frammenti insignificanti — abiti, stracci, scarpe, bottoni, occhiali, scatole di conserva e altri effetti personali — capaci tuttavia di rimandare a geografie dissolte, Boltanski propone abili esercizi per disseppellire rovine. Raccoglie tracce spezzate di ciò che era intero: quel che resta di esistenze svanite. Scarti che, nell’annunciare una grandezza mutila, rinviano a mondi tramontati, ma ancora vivi. Episodi il cui valore risiede in ciò che è ormai invisibile, non in ciò che vediamo. Materie che non vengono alterate, ma trasformate in essenze, prive di inerzia e di opacità. Boltanski si propone di salvare alcuni oggetti-simbolo, cui dona possibilità ulteriori. Tratta reliquie povere, appartenute a persone anonime, come pre-
«Da sempre attingo alla psicoanalisi e all’archeologia. Legata alla perdita, la mia ricerca è come uno scavo dal quale si percepisce più l’assenza che la presenza di individui scomparsi. I miei lavori sono inventari simili a vetrine contenenti oggetti che una volta erano stati di qualcuno. La mia mitologia è quella di Tadeusz Kantor, che mescola sofferenza, derisione, musica popolare e orrore»
ziosi reperti. Che, infine, custodisce dentro teche, bacheche, mensole, scatole. Tale passaggio ci fa cogliere l’attitudine formale sottesa ai gesti di questo artista indifferente alle mode e alle tendenze. Che, intento a dar voce al dolore delle «vittime», ricorre sempre a uno sguardo partecipe ma controllato. Ci consegna accatastamenti di brandelli di quotidianità, che iscrive dentro architetture misurate. Interprete di un umanesimo antico e «morale», riconduce ciò che è informe nell’ordine. Attento alla metrica dell’opera, situa ogni dato dentro composizioni esatte.
Nascono così le sue potenti nature morte, nelle quali si saldano pietas e rigore. Solenni monumenti del tragico. Templi laici, impronte di una classicità perduta. Boltanski: «Da sempre attingo alla psicoanalisi e all’archeologia, utilizzando cifre che sembrano senza significato. Legata alla perdita, la mia ricerca è come un’archeologia dalla quale si percepisce più l’assenza che la presenza di individui scomparsi. I miei lavori sono inventari simili a vetrine contenenti oggetti che una volta erano stati di qualcuno. Ma, posta all’interno di una teca museale, una cosa qualsiasi perde la sua funzione originaria. Credo che se conservi qualcosa, la uccidi».
Al termine di una difficile navigazione tra universi dimenticati, Boltanski raduna schegge disperse dentro archivi abitati da visioni e da sonorità. «La mia è un’arte totale che utilizza suono, luce, immagini, architettura e spazio. Ma oggi internet ha completamente modificato il senso della totalità. Gli archivi digitali alimentano un paradosso: all’aumentare delle fonti alle quali abbiamo accesso corrisponde una diminuzione delle informazioni che riusciamo a ricavarne. Troppi archivi uccidono gli archivi». In filigrana, riferimenti a uno tra i maestri del teatro contemporaneo, Tadeusz Kantor, teorico di un’arte anti-illusionistica, antimonumentale e povera. In sintonia con l’autore de La classe morta, Boltanski pensa l’arte come una cerimonia del lutto e della scomparsa; e rende le sue opere simili a reliquari o ad altari funebri eretti a un’umanità ignota. Raccoglie foto di delitti, di stupri, di corpi mutilati, di volti non identificati, incapaci di farsi icone. Che giungono a noi dal buio dell’aldilà, come minimi eroi senza tempo. «Kantor è tra gli artisti che mi ha maggiormente influenzato. L’ho conosciuto poco. Aveva una grande povertà di mezzi. Il suo è un teatro ambulante. Che si basa sul ricordo dell’Europa centrale ed è legato alla guerra. La sua è anche la mia mitologia, che mescola sofferenza, derisione, musica popolare e orrore in un sistema espressionista».
In linea con Kantor, Boltanski mira a coniugare urgenza testimoniale e rielaborazione formale, istinto di conservazione e disciplina compositiva. «Assegno un ruolo fondamentale a un linguaggio visivo che, nel privilegiare forme e suoni, è meno preciso delle parole. Perciò tutti possono comprenderlo e assimilarlo in base alle proprie radici e alle proprie vicende personali». All’origine di questa ricerca «francescana», per Boltanski — ancora in consonanza con Kantor — vi sono ragioni profondamente metafisiche. In lontana polemica con il disimpegno che caratterizza le proposte di tanti artisti della nostra epoca — inclini a rifugiarsi nell’intrattenimento e nella provocazione — egli concepisce le sue opere come strumenti per misurarsi con alcune domande «definitive» sul senso della vita e della morte, sul potere del dolore, sul dramma della perdita, sulla fragilità della memoria, sull’ineluttabilità dell’oblio, sulla tragicità della Storia. «Le questioni che affronto sono universali: appartengono a tutti. Non esistono molti soggetti in arte; sono sempre gli stessi: Dio, il sesso, la bellezza. A me interessa porre a tutti interrogazioni comuni attraverso effetti visivi in grado di stimolare sentimenti. L’artista non ha risposte certe, ma pone domande esistenziali. Che generano altre domande. Forse in grado di modificare i nostri comportamenti e addirittura di cambiare il mondo».