Corriere della Sera - La Lettura
Finalmente ho finito ( trent’anni dopo) di leggere quel libro
Un racconto per celebrare i giochi social de «la Lettura» sui romanzi del cuore
Il vecchio appartamento del mare della zia era rimasto sfitto per molti anni, da quando lei aveva smesso di andarci e nessuno di noi nipoti era tornato più in villeggiatura in Liguria. Mia figlia perlustrò le quattro stanze nello stesso tempo in cui io e mia moglie appoggiammo le valigie nell’ingresso, identico a come ce lo ricordavamo: con quel terrificante lampadario di ferro battuto nero, che pareva una crocifissione.
’Nimaletti! esultò mia figlia quando trovò su un comodino la mia vecchia collezione di «Snoopy» degli anni Settanta. Non aveva ancora compiuto tre anni. Ed eccolo lì: le poltrone di vimini, i pavimenti di piastrelle gialle, il cucinino bianco e blu e le cicale che frinivano sull’oleandro. Solo i motorini in strada si erano fatti più numerosi. Dalla finestrella sul cavedio saliva profumo di basilico. Il campanile rintoccò le tre e mezza mentre ancora stavamo aprendo le persiane e mia figlia gridò:
Din don dan! Din don dan! Ne fui rincuorato: avevo trascorso molte ore a leggere nei pomeriggi scanditi da quei rintocchi, e forse quella vacanza mi avrebbe aiutato a uscire dal brutto periodo in cui mi trovavo: non azzeccavo un libro da anni e ne avevo uno arenato ormai da più di quattro mesi. Per cercare di tenere lontana mia figlia dai ninnoli della zia le diedi la missione di trovare il telecomando del ventilatore, l’unico elemento d’arredamento di cui non mi ricordavo. Per un po’ funzionò. Poi, quando mia moglie mi ordinò di andare a controllare cosa stesse facendo — c’era troppo silenzio — la trovai infilata sotto a uno dei letti della camera dove, da bambino, dormivo io. Ne uscì con un libro tutto accartocciato. E quando lo vidi quasi glielo strappai di mano. Sapevo cosa fosse: ce l’avevo nascosto io più di trent’anni fa. Che vergogna, pensai, buttandolo in fondo al cassetto. La principessa sposa, di William Goldman.
Solo a cena, in pizzeria, mi venne voglia di raccontare a mia moglie la storia di quel libro. Me l’aveva prestato un ragazzo dei bagni, un certo Dimitri, che il giorno dopo doveva partire per tornare a casa. Era il più bel libro che avesse mai letto, diceva, e io avevo insistito per farmelo prestare. Allora non c’erano librerie in paese, e nemmeno Amazon. Gl i a ve vo p ro mess o c h e
Il patto tradito «La principessa sposa» me lo prestò un ragazzo dei bagni. Dissi che l’avrei terminato in una sera. È passata una vita
l’avrei letto in una sera e che, il giorno dopo, ci saremmo incontrati ai pini — dove c ’era il parcheggio — e glielo avrei restituito.
E poi non l’hai fatto, commentò mia moglie.
E poi non l’ho fatto. Me lo rilessi tutto d’un fiato quella notte stessa, e mi rappacificai così con Fezzik il gigante, lo spadaccino a sei dita e il perfido Vizzini. La mattina dopo scendemmo ai nostri ombrelloni agli Stella del Sud, che da 57 anni la zia prenotava comunque per l’intera stagione. Ci sono due cose che non si possono tradire, in Liguria: la tua squadra di calcio e lo stabilimento balneare.
Te lo ricordi, tu, Dimitri? domandai poi ai proprietari, alla prima occasione. Lo descrissi, così come lo ricordavo io. Partì una reminiscenza da bar. Dimitri, Dimitri. Ma certo. Non viene più da anni, ormai. E qualcuno sapeva dove abitava, in paese? Venne fuori che i suoi avevano una casa alla Crocetta, al numero 21. Ma dai. Eravamo vicini di casa. E io nemmeno me lo immaginavo. Guardai mia moglie e mia figlia agli ombrelloni, la linea bianca del mare, posai la tazzina del caffè e mi incamminai in paese. Al 21, però, c’era una famiglia in affitto con Airbnb. Domandai loro i contatti del proprietario di casa, e un vecchio del giardino dietro casa — uno di quei giardinetti che per metà sono orti, a più piani, tutti scale, scalette e tetti di ondulina — domandò perché lo stessi cercando.
Glielo dissi. Sì, li conoscevo, mi rispose, alludendo alla famiglia. E si ricordava anche me, di quando andavo al mare con la zia. Dimitri, comunque, aveva avuto un brutto incidente l’anno dopo i mondiali. L’anno in cui mi aveva prestato La
principessa sposa, pensai con angoscia. Gli domandai se sapeva di dove erano. Spiegai che avevo trovato una cosa sua. Eravamo amici. Una cosa che non gli ho mai restituito. Il vecchio esitò. Gliel’avevo promesso. Ah, disse, allora. Poi innaffiò, con calma, la sua pianta di limoni. Le promesse dell’Estate si devono mantenere. Altrimenti...
Venni percorso da un brivido, dalla testa ai piedi. Altrimenti cosa?
Altrimenti non si torna più, concluse il vecchio. Mi diede il nome di una città. E io, senza pensarci, tornai a casa, recuperai La principessa sposa, le chiavi della macchina e chiamai mia moglie quando già ero al casello dell’autostrada. Ho incontrato un vecchio amico, le dissi. Ci vediamo più tardi. Per pranzo, mentii.
Poi guidai come un matto per le due ore successive. Raggiunsi uno degli indirizzi che corrispondevano al suo nome secondo Google Maps e smontai davanti a una casetta di campagna, do- ve non c’era nessuno a parte un cagnetto con tre zampe che abbaiava furiosamente. L’anziana vicina di casa mi spiegò che a quell’ora Dimitri doveva essere a teatro per le prove. La baciai sulla fronte e schizzai a cercare questo fantomatico teatro. Il mio amico era diventato un attore? Un tecnico delle luci? Un impresario? Non lo sapevo. Lasciai la macchina in divieto di sosta, girai intorno al teatro fino a quando non trovai una porticina socchiusa e mi spinsi nel buio dei corridoi dei palchi. Squillò il telefono.
Ma dove diavolo sei? mi domandò mia moglie, furiosa. Poi ti spiego, le risposi. E chiusi il cellulare.
Trovai Dimitri sul palco, in piedi, accanto a una sedia a rotelle. Declamò alcune parole, poi si sedette, di schianto, per niente soddisfatto da quello che aveva appena recitato. Io, invece, l’avevo trovato fantastico. Mi mancava il fiato. Ero euforico. Scusa, gli dissi. Mi fissò. Aveva gli occhi azzurri, di ghiaccio. Me li ero scordati. E lui, evidentemente, si era scordato di me. Sono Vizzini, gli dissi. E lì ci fu come un lampo. Come la chiusura di un meccanismo. Non ci posso credere, rispose. Saltai sul palco, gli porsi il libro. Ci ho messo un po’ a finirlo. Oh, sì. Tutta quell’estate. E anche quelle successive. Non so se sono ancora in tempo. Ma sono tornato.