Corriere della Sera - La Lettura
Dalla patria e dagli antichi Il doppio esilio di Seferis
Il premio Nobel visse come una cesura irrimediabile la fine della presenza greca in Asia Minore dopo la guerra con la Turchia nel 1922. Il suo rapporto con Omero e gli altri classici è un’interrogazione costante
Una delle principali figure che attraversano la poesia del Novecento e contemporanea è quella del poeta esule, nomade, senza patria. A fronte di un sentimento quasi universalmente condiviso di disorientamento e dispersione, i poeti hanno infatti guardato ai loro tanti luoghi di paradiso e patrie perdute — indietro o in avanti, reali o immaginarie, storiche o, anche più spesso, metaforiche — come a una possibilità non altrimenti concessa di ricomposizione dell’identità individuale. Basti per tutti l’immagine del Porto sepolto che dà il titolo al primo libro di versi di Ungaretti, che resterà poi il suo migliore.
Se questo è vero, la dimensione dell’esule, quella che Josif Brodskij definirà poi la «condizione che chiamiamo esilio», trova senza dubbio un’incarnazione di particolare evidenza nel poeta greco Ghiorgos Seferis, di cui sono uscite ora Le poesie (Crocetti Editore), un’ampia scelta antologica molto ben tradotta da Nicola Crocetti («una resa serena, limpida ed elegante», come ha notato Nicola Gardini nella sua introduzione). Nel caso di Seferis, infatti, le vicissitudini esistenziali e biografiche si congiungono fino a fare una cosa sola con ragioni, almeno altrettanto profonde, di natura storicoantropologica, legate anzitutto al rapporto strettissimo, ma comunque complesso, contraddittorio, a volte persino schiacciante, che ogni poeta neogreco intrattiene con l’immagine e con l’eredità della Grecia antica.
Se a partire dal romanticismo — pensiamo solo a Schiller e a Leopardi — i poeti ci hanno detto che il rapporto con l’origine è perduto, per un autore neogreco qual è appunto Seferis questa rottura doveva assumere un carattere insieme drammatico e totalizzante, diventare il segno o la cifra unica del destino, visto che riguardava la patria stessa della poesia, e allora la perdita dell’armonia e della pienezza, della lingua e del canto, della possibilità di ordinare il mondo secondo giustizia.
Nato a Smirne nel 1900 (il padre era un professore di Diritto internazionale), Seferis si trasferisce assieme alla famiglia in Grecia nel 1914. Dopo essersi diplomato ad Atene, nel 1918 passa a studiare a Parigi, dove ottiene la laurea in Giurisprudenza nel 1924. Ed è appunto da Parigi che nel 1922 segue gli eventi della cosiddetta catastrofe dell’Asia Minore, come viene in genere definita dalla storiografia greca: la disfatta dell’esercito nella guerra greco-turca, la distruzione della città di Smirne, l’esodo delle antiche comunità greche dai territori originari. Se pure un filo con l’origine esisteva, certo è che per Seferis da questo momento risulterà irrimediabilmente spezzato.
Rientrato in Grecia nel 1926, intraprenderà poi una fortunata carriera diplomatica, che lo porta via via in varie città d’Europa e mediorientali, tra cui spiccano Ankara e soprattutto Londra, da cui tra l’altro gli è possibile avere una conoscenza diprima mano dei più importanti svolgimenti della poesia europea. Traduttore nona ca sodi E li ot, Pound, Valéry e Auden, Seferis otterrà il Premio Nobel per la letteratura nel 1963 (è scomparso ad Atene nel 1971).
Come anticipato, tuttavia, non sarebbe giusto derivare meccanicamente la sua vicenda poetica dagli eventi dello sradicamento e da una ferita pur così profonda e immedicabile. Questi costituiscono piuttosto un elemento importante di un percorso di svelamento e di conoscenza più ampio (condotto sempre attraverso gli strumenti poetici e secondo l’etica del verso), che si allarga via via ad anelli concentrici fino a configurare alcune fondamentali verità dell’uomo non in termini storici o circostanziali, bensì assoluti, inamovibili, eterni.
Da questo punto di vista leggendo questa antologia — che comprende testi da Svolta, il primo libro del 1931, fino a Quaderno di esercizi, II, l’ultima raccolta uscita postuma nel 1976 — si può comprendere bene come Seferis abbia guardato al repertorio di miti, situazioni e figure della Grecia antica come a una costellazione da interrogare o con cui dia- logare riguardo al destino umano in quanto tale. Come sempre, il retaggio più vero del passato non sta nella continuità, ma nella possibilità di chiedere, di cercare una volta di più delle risposte: «Ma gli esorcismi, i beni, l’oratoria / a che servono se sono lontani i vivi?/ Oppure l’uomo è un’altra cosa?/ Non è questo che trasmette la vita?/ C’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere».
Sempre secondo l’esempio antico, omerico in particolare, Seferis è un poeta di viaggi nel buio, di catabasi, ma quanto più sembra inabissarsi in un’epoca remota, quanto più sembra voler ricucire le trame di una maglia che il tempo (non a caso il suo motivo d’elezione) ha disfatto, tanto più sembra rifuggire uno sguardo nostalgico per raggiungere invece una nuova fortezza rispetto alle responsabilità della propria esistenza, e così la capacità di pronunciarsi, tra distruzioni, abbandono e rovine, rispetto a un qui e ora che equivale a un sempre: «Chínati, se puoi, sul mare oscuro dimenticando/ il suono di un flauto sopra i piedi nudi/ che calpestarono il tuo sonno nell’altra vita sommersa.// Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio/ il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi».
Seferis è uno scrittore particolarmente attrezzato, stilisticamente curioso ed eclettico. Come ha detto bene Gardini, «trovi la rima e la strofa chiusa, il frammento, il poème en prose, il verso lungo, l’haiku, la pagina di diario, la poesia storica alla Kavafis, l’immaginazione alla Breton, la poesia e le cronache d’età bizantina o l’esempio dei poeti cretesi, la desolazione alla Eliot o anche alla Montale». Accanto e per certi versi di contro a questa ricca e aggiornatissima strumentazione poetica, si avvale però con misura ed eleganza, e non con intenti mimetici ma per desiderio di evidenza e concretezza, del demotikí, il greco non letterario ma parlato, impuro; il greco della gente, insomma. Anche qui formalizzazione e immediatezza, dunque: ogni componente della poesia di Seferis finisce di fatto per riproporre a livelli diversi lo stesso, fondamentale contrasto. L’attrito tra passato e presente, tra mitologia classica e mondo contemporaneo, si rinnova infatti in quello tra l’energia poetica percepita come allo stato nascente e il processo di fissazione del senso intrinseco alla creazione poetica; o ancora nel contrasto tra occasione e assoluto, tra il sentimento del tempo e l’eternità del mito, tra la particolarità del singolo evento, a cui questo poeta si mostra sempre molto sensibile (si trovano splendide annotazioni puntuali nelle sue poesie), e il suo valore emblematico o esemplare.
Certo Seferis era pienamente consapevole che la sua fosse una poesia di contrasti; una poesia in cui qualcosa di tormentato, di non pacificato e di spiritualmente irrisolto fa parte della sua stessa concezione. Nel Discorso di accet
tazione del Nobel, che opportunamente è stato proposto in calce al volume, parla degli errori degli uomini, della perdita della misura, dell’ingiustizia del mondo, e della poesia non come rimedio, come un risultato in se stesso compiuto, bensì come una strada, un’opportunità, una speranza. «La poesia — afferma — affonda le sue radici nel respiro umano: e cosa sarebbe di noi se il nostro respiro dovesse venire meno?». Viene in mente Paul Celan, che negli stessi anni parlava della poesia appunto come una «svolta del respiro». E dal canto suo Seferis si era mosso per tempo su questa strada, se — come precisa Filippomaria Pontani in un testo citato nel volume — il titolo del suo primo libro, Strofí, in greco «significa tanto “Svolta” quanto “Strofa”».