Il bisogno di una storia vale quanto una storia
Racconti Luca Doninelli dedica quattro novelle a «La conoscenza di sé»: tre trattano il tema dell’omosessualità, una è la vicenda di un segreto non svelato. L’impianto ideologico dell’autore non è una limitazione ma ci soccorre. Come una mappa
Il narratore mite, il tono piano, i personaggi perplessi ma irriducibili nel non arrendersi al proprio labirinto, le situazioni subito delineate in poche frasi, le domande senza risposta ma più ancora le risposte di cui non si sa quale fosse la domanda, che fanno la sostanza delle quattro terse novelle raccolte in La conoscenza di sé, Luca Doninelli può permettersele perché è uno scrittore di forte impianto ideologico. Non benché, ma proprio perché. In genere si crede il contrario ma è un errore. Un forte impianto ideologico non significa avere la risposta pronta su tutto, trinciare giudizi senza bisogno di pensare. Significa invece avere una mappa attendibile, e sulla mappa ci sono scritti anche i luoghi pericolosi, quelli dove non si vorrebbe andare, quelli in cui ci si perderebbe, i Paesi di cui non si sa la lingua e quelli in cui gli usi sono estranei o nemici. Una buona mappa, una mappa onesta, comprende quando è tale anche i vuoti. Una mappa non sostituisce mai la decisione di avventurarcisi, ma permette di farlo a ragion veduta, senza sgomento.
Quali sono dunque i luoghi in cui Doninelli si avventura? Non le isole del tesoro o le foreste cannibali, ma le pieghe minime in cui il tessuto del vivere si sottrae, cambia verso, riflette altre sfumature di colore. Tre racconti su quattro di questa raccolta ruotano intorno al tema dell’identità sessuale. Una ragazza scontenta reimmagina la sua biografia come se fosse quella di un adolescente problematico di un sobborgo inglese, e costruisce i suoi amori e il suo percorso artistico a partire da un passato scelto, accettato nei suoi dolori più che nelle sue realizzazioni. Una giovane lesbica scopre l’attrazione per il sesso maschile (inteso come pene prima che come psicologia) attraverso l’incontro con un ragazzo innamorato di lei. Un intellettuale e scrittore sessantenne candidato al Nobel (e come minimo allo Strega) vede incrinata la sua soddisfazione di sé per il fatto di aver letto su un giornale free press una frase senza senso apparente pronunciata da un poeta barbone, e inizia una ricerca che lo porta a rivedersi col suo maestro di un tempo — omosessuale, carismatico, un tempo dominus della scena letteraria e artistica italiana, da 35 anni ritiratosi a coltivare fiori in una valle svizzera — da cui era stato ripudiato. Il segreto su di sé, di cui è in cerca, si trova solo nelle parole dell’altro, il quale però non sa di possederlo né di averglielo rivelato, come già nelle storie precedenti.
Anche l’unico racconto in cui la tematica omosessuale non compare è la storia di un segreto non svelato (una vecchia cieca, un’orfana dodicenne, la vera vicenda della sua famiglia, che la cieca non le palesa pur mettendola in condizione di indagarla, scoprirla e sopportarla).
La verità è sempre nello sguardo dell’altro, ma non come un possesso o una potenza. Piuttosto un evento che si compie e si esaurisce nell’atto stesso di accadere e di cui le parole possono cogliere solo l’alone circostante, lo sfondo che trepida, l’istante sospeso prima che il pennello inizi a dipingere. L’essenziale è altrove ma l’altrove è qui, qui vicino, a due passi da noi. L’istante decisivo è sempre, i momenti di rivelazione si distinguono dagli altri solo perché ricapitolano una salvezza già disseminata dappertutto, anche se mai garantita. Niente conversioni, niente trucchi dialettici. L’omosessualità non è l’opposto ma il rovescio, la piega, il possibile del rapporto tra i sessi. Il passato non ha diritti ultimativi su nulla, ma nemmeno il futuro può far sì che ciò che è stato non sia stato. La prosa di Doninelli persegue la continuità, non lo strappo — così diversa, in questo, da quella di un autore per lui importante come Giovanni Testori, forse adombrato nella figura del maestro rinunciante in fuga sui monti.
E continuo e senza costure è anche il paesaggio, il mondo fisico, una Milano resa in una pittura tonale, mai afosa e mai fredda, mai misera e mai chiassosamente, sfacciatamente opulenta, almeno nel «semicentro» in cui si ambientano i racconti. Arte dell’humilitas creaturale (così difficile da rendere in un contesto metropolitano), dove agli sfondi estremi del suo precedente romanzo apocalittico, Le
cose semplici (Bompiani), è come se venisse concessa un’altra possibilità, più sommessa ma non meno vivida pur tra i suoi chiaroscuri. Anche in questo giova a Doninelli che il suo impianto ideologico sia saldo: l’insicurezza ama e odia gli strilli a cui è costretta, il convincimento può prendersi carico di tutto, anche di ciò che parrebbe troppo comune per essere narrato.
C’è un passo molto bello della prima novella in cui la protagonista capisce che se la storia del suo alter ego William le corrisponde così tanto è perché, più che una storia vera e propria, è piuttosto «il bisogno di una storia». Lo stesso si può dire degli altri personaggi. Le mancanze, le insoddisfazioni, i dilemmi sono reali, ma non spazzano mai via in nome di un’alterità radicale la consistenza, in primo luogo fisica, di ciò che c’è. Quello di Doninelli è un realismo atmosferico in cui non si scorgono porte socchiuse sugli inferi o sui cieli. La prossima volta che rimprovereremo all’ideologia l’eccesso di soddisfazione irreale che promette ai suoi detentori, potremo tornare a queste pagine per vedere di quanta concretissima realtà la sua critica rischi di privarci.