Vanity Fair (Italy)

SE IL TERRORE ABITA IN CASA

Dopo anni di abusi su lei e i figli, Jacqueline uccise suo marito. Condannata, è appena stata graziata da Hollande. Qui, due delle figlie raccontano l’incubo del CASO SAUVAGE

- di CARLA BARDELLI

Quando eravamo bambini e nostro padre faceva il camionista, rientrava il fine settimana e nessuno poteva indovinare con chi se la sarebbe presa, ma era certo che a qualcuno sarebbe toccato. Agli altri restava il triste spettacolo di assistere al massacro. Per le violenze sessuali, invece, ci prendeva a una a una, in segreto, minacciand­oci delle peggiori rappresagl­ie se avessimo parlato». Carole Marot, 49 anni, mi sta parlando in un angolo di Le Millésimes, ristorante parigino sulla rue de Courcelles, seduta a un tavolo accanto alla sorella maggiore Sylvie, 50. Sono figlie della 68enne Jacqueline Sauvage, che nel 2012, dopo 47 anni di violenze e paura, uccise il marito Norbert Marot prendendol­o a fucilate sulla schiena, e per questo è stata condannata in primo grado e in appello a 10 anni di carcere, senza vedersi riconoscer­e la legittima difesa. Le due sorelle mi hanno dato appuntamen­to per raccontarm­i la loro battaglia in difesa della madre, una mobilitazi­one mediatica e popolare così massiccia («La Francia è in guerra contro l’Isis, ma i peggiori terroristi sono i mariti e i padri che nelle nostre case arrivano a seviziare, violentare, uccidere», ha detto Janine Bonaggiunt­a, avvocato della donna assieme a Nathalie Tomasini) da convincere il presidente Hollande a concedere, giorni fa, una grazia che consentirà alla donna di accedere alla libertà vigilata. «Mamma ha subìto una volta di troppo. Ha preso il fucile e ci ha liberate dall’inferno», mi dice Sylvie ricordando quel 10 settembre 2012 quando Norbert andò a picchiare Jacqueline nella camera in cui si era rinchiusa, nella loro casa in un villaggio nella valle della Loira, per poi andare a bersi una birra in terrazza dove lei, armata, andò a ucciderlo. Il giorno prima, il 44enne Pascal, fratello minore di Sylvie e Carole, anche lui bersaglio continuo delle botte del padre, si era impiccato in casa sua. «La tensione», prosegue Sylvie, «negli ultimi tempi era aumentata per via dei problemi finanziari dell’impresa di mio padre, dove lavoravamo anche io, mamma e Pascal. Povero fratello: la settimana prima l’orco lo aveva preso a sprangate. Niente di nuovo, succedeva da quando era bambino. Ma forse quella è stata la volta di troppo». Una delle cause della condanna è stata l’assenza di riscontri concreti delle vostre accuse di violenze. Perché, negli anni, non avete parlato? Come avete potuto subire in silenzio? Sylvie: «La vergogna è la migliore alleata degli orchi. E nessuno ha mosso un dito per aiutarci. Mia madre è finita non so quante volte al pronto soccorso, ha ripetutame­nte tentato il suicidio, senza suscitare la minima curiosità sulla sua situazione. Eravamo tutte segnate dai lividi, ma nessuno, né tra i vicini né a scuola, ci ha mai fatto una domanda». Carole: «La nostra sorella minore, Fabienne, aveva 17 anni quando fuggì di casa. La trovarono i poliziotti, le chiesero che cosa fosse successo, allora lei raccontò tutto. Ma arrivò mio padre, urlò, la terrorizzò, e lei impaurita ritirò la denuncia. Un agente le diede persino uno schiaffo, per il tempo che gli aveva fatto perdere. Capisce perché nessuna di noi è più entrata in un commissari­ato?». Che cosa sarebbe successo se vostra madre non avesse sparato? Carole: «Lui l’avrebbe uccisa, come sempre succede. Per una volta, non è andata così».

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