CHI CURERÀ I NOSTRI FIGLI?
I disabili intellettivi e le famiglie lasciate sole: VITTORIO SINDONI conosce il problema e lo racconta in Abbraccialo per me. Perché cambi qualcosa
CStefania Rocca, 45 anni, e Moisé Curia, 25, protagonisti di Abbraccialo per me, nei cinema dal 21 aprile. A destra, il regista Vittorio Sindoni, 76 anni. i sono un sorriso e un urlo nel film su minori e disabilità intellettiva, Abbraccialo per me. Il sorriso è quello che il regista Vittorio Sindoni chiede «per chi soffre di problemi mentali, quando lo incontriamo. È gratis ma vale tantissimo, anche per chi lo accompagna. Far finta di niente o guardare altrove sono gesti che feriscono, escludono». Il grido, invece, è rivolto alla politica, ed è una richiesta d’aiuto. «Perché dopo la legge Basaglia (la 180 del 1978, ndr), che ha svuotato i manicomi, non ci sono fondi per creare abbastanza “strutture intermedie”, che aiutino le famiglie. Che poi, abbandonate, si chiedono: chi si occuperà dei nostri figli dopo di noi? In troppi sono “tenuti in casa” e imbottiti di farmaci, a volte inutili se non dannosi». Sindoni, 76 anni, uno dei maestri della commedia e del cinema impegnato, ne parla con la passione di un ragazzo, a Roma nel ristorante toscano «dove portai Sophia Loren». Per lui ora c’è solo Abbraccialo per me. Abbiamo seguito su VanityFair.it il film, patrocinato dal Garante per l’Infanzia Vincenzo Spadafora, tifando perché venisse distribuito. Sindoni, quando ne ha avuto la certezza, ci ha citato anche nel trailer. Come ha deciso di affrontare un tema così delicato? «Mi ha spinto il coraggio di Antonella Giardinieri, del mio paese, Capo d’Orlando in Sicilia. Nell’agosto 2014 mi portò un testo di 80 pagine che aveva scritto sul dramma del fratello, bipolare. Mi colpì, mi dissi: “Non me lo faranno mai fare”». Poi però… «Ci ho provato lo stesso, producendolo e rielaborandolo». Anche perché quel dramma lo conosce bene. «Mio figlio Daniele, di 38 anni, è affetto da autismo e abbiamo una splendida comunità che ci ha accompagnato e ci accompagna. So che cosa succede quando la disabilità intellettiva esplode in una famiglia. Nel film si parla di disturbo bipolare: l’autismo di Daniele l’ho citato solo in una scena, ambientata in chiesa, dove fa “scandalo” la sua abitudine di togliere gli occhiali alle ragazze. Ma non è per lui che ho fatto il film, anzi, una sera mia moglie Rita ha provato a fermarmi: “Lo devi proprio fare questo film?”». Che cosa ha risposto? «Che poteva essere utile, a tutti. Conosciamo bene la sofferenza, fin da quel 1976, quando il nostro piccolo Fabio venne falciato via da una macchina a 9 anni mentre andava a prendere un gelato in bicicletta». Anche Ciccio, il protagonista, è «figlio di un dio minore». «Il film racconta la sua storia, di ragazzo bipolare appunto, che vede, crescendo, aggravarsi i sintomi e l’esclusione sociale. Al centro c’è il suo rapporto con la madre, Caterina, esclusivo, onnivoro, che porterà alla disgregazione di un’intera famiglia». Intende dire che un rapporto di questo tipo può aggravare la situazione? «No, ma certo non aiuta Ciccio a stare meglio. Caterina stessa, come spesso accade, non ammette fino in fondo la malattia del figlio. A questo servono le strutture intermedie, comunità che aiutino a volar via dal nido, cercando un inserimento protetto nella società e permettendo il confronto con altri affetti dagli stessi disturbi». Come nel finale del film. «Sì, senza svelare troppo, la prego. Ci tengo tantissimo ad Abbraccialo per me, ho curato ogni particolare e non ho mai lavorato così tanto. Anche perché penso che sarà il mio ultimo film». Sicuro di abbandonare? Nessun’altra «cosa che non le faranno mai fare»? «Quasi sicuro, volevo chiudere con un ritorno al cinema di impegno: per questo, dopo tanta fiction Tv, ho deciso di tornare al cinema dopo 26 anni. E pensare che per me tutto è iniziato a 19 anni, con 8 mila lire prestate dalla drogheria del paese. Le ho spese per prendere un treno in terza classe, vagone di legno, e iscrivermi a un corso di regia a Roma della Pro Deo, oggi Luiss. Altri sogni dopo uno così? Forse uno». Quale? «È un progetto di Elena Fava, figlia di Pippo Fava ucciso dalla mafia nel 1984: purtroppo anche lei ci ha lasciato in dicembre. Vorrei realizzarlo, come un regalo a lei, agli immigrati, alla Sicilia, a tutti. Un cimitero dei migranti, davanti al mare, degno della loro tragedia che si consuma ogni giorno in quelle acque».