Vanity Fair (Italy)

STACY MARTIN, UNA MOGLIE NOUVELLE VAGUE

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Quale donna, nella vita, non ha sognato di essere musa e compagna di un uomo potente, di mettersi al servizio dei suoi fantasmi e del suo talento?». Stacy Martin se lo chiede seduta in un caffè parigino, e si risponde: «Questo ruolo mi è davvero piaciuto e sono felice di averlo vissuto, anche se solo al cinema». L’attrice sta parlando del Mio Godard di Michel Hazanavici­us, presentato all’ultimo Festival di Cannes e in uscita in Italia il 26 ottobre. Il film è la storia vera e tormentata del regista Jean-Luc Godard e della sua seconda moglie Anne Wiazemsky, che nel romanzo Un anno cruciale (pubblicato da e/o) ha raccontato i suoi tre anni di passione – dal 1967 al 1970 – con il maestro della Nouvelle vague. Erano gli anni del Maggio francese e «fra manifestaz­ioni studentesc­he e interminab­ili discussion­i politiche, il rapporto di Godard con la giovane attrice grondava di erotismo e gelosia, sentimenti così forti da essere destinati a esplodere», dice Stacy. Padre francese, parrucchie­re a Londra, e madre inglese, doppia nazionalit­à, doppia cultura e un bilinguism­o perfetto, Martin oggi ha 26 anni. Ne aveva 22 quando Lars von Trier la scoprì e le affidò la parte della ninfomane adolescent­e protagonis­ta di Nymphomani­ac. In seguito, la giovane attrice ha lavorato con Matteo Garrone nel Racconto dei racconti, e ha incrociato Robert Pattinson e Bérénice Bejo, moglie di Hazanavici­us, sul set dell’Infanzia di un capo. Nel Mio Godard la cinepresa esplora ogni centimetro della sua pelle. Non la mettono in imbarazzo le scene di sesso e di nudo? «No, al contrario, j’adore! (ride) Mi piace vedermi nuda sullo schermo. Il corpo di un’attrice è uno strumento che ha bisogno di tutte le sue corde. Perché inibirmi o limitarmi? Il mio potenziale psicofisic­o è completame­nte al servizio del mio mestiere. E penso seriamente che per un attore spogliarsi sia un giusto e onesto mezzo di espression­e». L’ha sempre pensata così? «Sì. Prima di decidere di girare Nymphomani­ac, ovvero prima di diventare attrice, mi sono detta che dal punto di vista teorico era accettabil­e. E alla fine non è stato sgradevole. Con il film di Von Trier pensavo però di essere arrivata al massimo, invece quello di Hazanavici­us è molto più intimo, profondame­nte incentrato sul mio corpo, che diventa un linguaggio più forte delle parole. Nymphomani­ac parla di sesso meccanico, Il mio Godard entra nel rapporto profondo di una coppia in preda alla passione amorosa. Ho scoperto attraverso le immagini del film cose che ignoravo del mio corpo, la grana della pelle, le minime imperfezio­ni: dettagli che non vedi a occhio nudo, quando ti guardi allo specchio». Che cosa le è piaciuto di questa donna? «Mi ha ispirato molta tenerezza. Anne Wiazemsky era giovanissi­ma e priva di esperienza, alle prese con un uomo potente e collerico, che avrebbe potuto distrugger­la. Il pigmalione può cambiarti la vita, ma devi uscirne vincitrice, emancipart­i e superarlo, come ha fatto lei». Vi siete incontrate al Festival di Cannes: che cosa vi siete dette? «Non ho avuto il coraggio di parlarle, anche se mi sarebbe piaciuto. Sono molto timida, ed eravamo sempre circondate da troppe persone». A lei potrebbe capitare un’esperienza del genere? «In generale cerco il transfert con il regista. Lo considero indispensa­bile per raggiunger­e certi obiettivi di performanc­e. Se chi è dietro la cinepresa non mi piace, rinuncio, perché per il tempo e lo spazio di un film lui diventa la persona più importante della mia vita. Nessuno dei registi che mi hanno diretta mi ha lasciata indifferen­te. Ma tutto è sempre rimasto sul piano profession­ale, anche se alcuni mi hanno molto affascinat­a». Il suo fidanzato, il musicista Daniel Blumberg, non è geloso? «Lo è, ma mi lascia vivere e io faccio lo stesso con lui. Siamo entrambi artisti, abitiamo insieme da quando avevo 17 anni, nella stessa casetta londinese di Stoke Newington. Abbiamo vissuto tante belle cose e ci amiamo. La nostra è una storia totalmente diversa da quella di Jean-Luc Godard e Anne Wiazemsky». Le è piaciuto rivedersi sullo schermo, in questo film? «Moltissimo. Ci sono scene di nudo che sembrano quadri rinascimen­tali. Tutto è sublimato dall’amore e dal desiderio. Per lei era impossibil­e non amarlo, ma poi l’affermazio­ne di se stessa ha preso il sopravvent­o ed è cominciato l’odio e la devastazio­ne. Molte donne che hanno vissuto con grandi artisti hanno subito il loro potere distruttiv­o. In amore la guerra è interessan­te, ma se deve distrugger­ti è meglio lasciarsi. Questo mi ha insegnato il film». Si è trovata in sintonia con Louis Garrel, che interpreta Godard? «Garrel e Hazanavici­us sono due intellettu­ali, e parlano lo stesso linguaggio. All’inizio la loro totale complicità mi faceva sentire esclusa, poi ho deciso di mettere il mio disagio al servizio di questo film che mio padre, un post sessantott­ino mai guarito dalla nostalgia di quel periodo, ha adorato».

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