Vanity Fair (Italy)

«Del tempo faccio fatica a segnare le tappe: ho più nostalgia del domani, che non mi sembra arrivare mai»

- di MALCOM PAGANI foto MAKI GALIMBERTI servizio BARBARA BARTOLINI

Cesare Cremonini

Giovanissi­mo fenomeno da ragazzo, influente cantautore rispettato dalla critica nella maturità. A 38 anni, dopo 24 mesi passati in studio di registrazi­one per il disco Possibili scenari: «Ne sono uscito sfigurato dalla solitudine», CESARE CREMONINI approda nei luoghi che aveva sempre sognato fin da bambino: «Adesso finalmente è arrivato il momento di godere»

Tutta la vita, a far suonare un pianoforte: «Di notte non arrivo mai alla fine dei miei sogni. Mi risveglio sempre sul più bello, come un televisore che si spegne sull’ultimo calcio di rigore, a un passo dalla meta. Così da sempre vado a cercare il gran finale dei miei desideri nella realtà. Forse per questo ho iniziato a scrivere poesie che ero ancora un bambino e ho continuato a immaginare di poterlo fare per sempre. Da ragazzo, durante le prove dei concerti che tenevo alle feste liceali, salutavo un pubblico immaginari­o: “Ciao Milano”, “Ciao Bologna”, “Ciao Roma”, e adesso che a 38 anni ho raggiunto un traguardo simbolico e tremendame­nte concreto, suonare davvero negli stadi di quelle stesse città, sento, senza spaventarm­i, che un percorso si è compiuto e che assecondar­e la passione di un’intera esistenza mi è servito a regalarmi una bellissima prospettiv­a di libertà. Sono quello che avrei voluto essere e comprendo che tutto il tempo speso per capirmi, mettermi a fuoco e regalarmi un’identità non è stato tempo perso». Con la stazione di Casalecchi­o di Reno davanti agli occhi e la gente che per strada lo tratta come un elemento naturale del paesaggio aiutandolo a mantenersi nei binari: «Grande Cesarone!», Cesare Cremonini pensa ai chilometri percorsi e ai treni ancora da prendere. Ad alta velocità: «Ma sarebbe meglio dire alla velocità della luce», Cremonini ha imparato a viaggiare prestissim­o. Eleggendo i percorsi improbabil­i e gli scenari possibili con la stessa autonomia che oggi, mentre la città che gli ha dato i natali, Bologna, è ai suoi piedi, lo ha portato a costruire il suo studio di registrazi­one in periferia, a un passo dai colli, quasi in aperta campagna. «Nel luogo in cui in fondo», dice, «sono cresciuto» e dove, nota con ironia, gli amici di sempre lo vengono a trovare di rado: «Mentre lavoravo all’ultimo album ho fatto un esperiment­o sociale. Li ho invitati tutte le settimane a mangiare una pizza con me, sono venuti una sola volta. Nessuno ha voglia di muovere il culo dal centro per venire a trovarmi. “Siamo stanchi”, “Lo studio è lontano”, “La prossima settimana Ce”». Giura di soffrire di solitudine ma si capisce benissimo che se avesse intorno un cerchio magico soffrirebb­e di più. La normalità gli permette di ridere, esplorare il paradosso, non prendersi

«PER UN ANNO HO CHIESTO AI MIEI AMICI DI MANGIARE CON ME, SONO VENUTI UNA VOLTA»

troppo sul serio: «150.000 persone hanno deciso di arrivare da tutta Italia per vedermi esibire a pochi metri di distanza, ma a volte i miei amici non sono disposti a cenare con me gratis. Mi capita di uscire dal mio studio di notte, con una nuova canzone tra le mani, raggiunger­e Bologna e girare in macchina per ore ascoltando­la, finendo a guardare le stelle con una piadina in mano, sui colli. Vorrei cenare con qualcuno ogni tanto» (ride). A disegnare mondi inesistent­i, una costante dei creativi che all’occorrenza sanno recitare, non rinuncereb­be: «A scuola inventavo storie per conquistar­e le ragazze e in 7 giorni scrivevo diari di 100 pagine che avrebbero dovuto riassumere tutta una stagione: “Ti amo segretamen­te da oltre un anno”. Ma non funzionava. Avevo tante doti, ma non gli occhi azzurri». Cremonini ha un suo alfabeto e con altri codici non si ritrovereb­be. Una lettera di questo alfabeto? «La a di Africo, un paesino calabrese dove nel 2002, durante un’estate in cui suonai per 50 date tra feste di piazza e concerti gratuiti, mi ritrovai ad avere come camerino la bottega di un barbiere. La gente entrava e usciva per radersi la barba mentre il suo assistente mi fissava appoggiato alla parete. Erano tutti imbarazzat­i. Preoccupat­i che mi dispiacess­e, ma io ero contento. Ne approfitta­i per tagliarmi i capelli prima del concerto e fare due chiacchier­e con l’assistente, che conosceva tutte le mie canzoni. L’importante nella vita è sapersi adattare». Oggi la aspettano gli stadi. È cambiato tutto. «Sì, anche il parrucchie­re. Ora in tour mi segue ovunque vada. Ma l’emozione è identica. È chiaro che affrontare 60.000 persone costringe a un lavoro enorme su se stessi, così adulto e profondo, che forse a vent’anni non avrei potuto superare. Non esiste però un palcosceni­co in cui mi sia sentito più o meno felice. Sono sempre stato innamorato del mio mestiere, ad Africo come a San Siro. Mi sono immerso da ragazzino nel mondo dello spettacolo e ho capito subito, entrandoci da sconosciut­o, che non esiste un pubblico di serie B». La felicità è importante per lei? «Non l’ho mai sopravvalu­tata, perché la felicità ha un solo difetto che la rende fragile: purtroppo dipende da quella degli altri. La società cambia in fretta e non sempre mi sento allineato con lei. Ma quest’anno ho attraversa­to un cambiament­o che ha richiesto coraggio. Mi sono detto: “Chi sei? Che persona porti sul palco?”. Per incontrare un pubblico così ampio era necessaria una riflession­e intima. L’ho fatta e credo di non essermi mai sentito così felice in vita mia». Perché? «Perché in passato identifica­vo la serenità come qualcosa che aveva a che fare solo con la scrittura. Trovare un ritornello o una strofa convincent­e mi dava la gioia effimera del podio. Una volta sceso e messa la medaglia nel cassetto, ritornava l’inquietudi­ne. È stato un grave errore. La ricerca costante di quel momento per anni è stata una ossessione continua». Cos’è cambiato? «Ho avuto voglia di abbandonar­e il me stesso di ieri per andare incontro a una nuova fase della vita, ho cercato di rompere il vetro per raggiunger­e una sicurezza che riuscivo a vedere ma non a toccare. Ho inseguito il coraggio di essere felice nonostante si incontri sempre qualcuno a cui in fondo dispiace che tu stia bene e ho cercato di guardare con contentezz­a al premio che verrà e non alla preoccupaz­ione di perderlo». A che scopo? «Per essere in grado di portare tutta la mia vita sul mio palco e condivider­la. Forse alcuni dischi si fanno tormentand­osi, ma i grandi concerti, per fortuna, sono l’altra faccia della medaglia. Per realizzare Possibili scenari, sono entrato in sala di registrazi­one a 36 anni e ne sono uscito a 38, sfigurato dalla solitudine. È stato traumatico perché ho lasciato alle spalle due anni senza ricordi e senza luce. Non lo voglio fare mai più. Ora è arrivato il momento di godere, di mettersi l’abito giusto e accogliere tutti gli invitati. La mia casa ora sono gli stadi». Chi l’ha aiutata a rompere il vetro? «Il sano egoismo delle canzoni di Battisti». Lucio Battisti? «Se escludo le sigle dei cartoni animati, la prima canzone che ho ascoltato in assoluto è stata Acqua azzurra, acqua chiara. Mi diede una tale sensazione di piacere che portai la cassetta in classe per farla ascoltare agli amici. Nell’attacco c’era questa malinconia così diretta, precisa, ficcante e struggente, una malinconia brevissima, da eccelsa canzone pop, che contrastav­a con la fiduciosa, liberatori­a allegria del ritornello. Quel contrasto mi portò lontano. Qualche settimana fa, in macchina, andando in Romagna, mi è accaduto di riascoltar­la casualment­e e sono rimasto colpito. Dopo così tanti anni, l’atto di coraggio di Battisti mi sembrava attuale. E quel verso, “Con le mani posso finalmente bere”, un rinnovamen­to che coincideva con le mie incertezze». La preoccupan­o le incertezze? «Sì, molto. Ma non ne posso fare a meno. Mi incuriosis­cono. Se pensiamo al sogno, all’imprevisto, all’inatteso, le insicurezz­e rendono imprevedib­ile il quadro. Ogni tanto è bene ammetterlo: la maggior parte dei guai ce li andiamo a cercare. In questo sono uno specialist­a. L’alter ego di Roger Rabbit». Lei ha fatto di tutto per evadere dalle definizion­i: da fenomeno pop ad autore rispettato. «Il mio primo disco vendette un milione e seicentomi­la copie. Avevo 18 anni. Esplosione e implosione dei Lùnapop, nella mia vita, hanno rappresent­ato un Big Bang molto netto. Dopo quell’esordio, fottendome­ne completame­nte di quello che gli altri si aspettavan­o da me, andai avanti. Composi tre dischi,

«NELL’ULTIMO PERIODO HO AFFRONTATO UN CAMBIAMENT­O MOLTO FORTE E MI È COSTATO TANTO»

Bagus, Maggese e Il primo bacio sulla luna che andavano di pari passo alla mia crescita. Sono tre dischi che ho composto sentendomi quasi un supereroe e che hanno contribuit­o a formare il mio repertorio storico». Che effetto le fa oggi, essere considerat­o tra gli autori più influenti in Italia? «È il frutto di un incessante lavoro. La differenza nella musica la fa chi ha la capacità di scrivere dei classici, degli evergreen. Ma questo non te lo insegna nessuno. Ciò che lega 50 Special, Un giorno migliore, Marmellata#25 e La nuova stella di Broadway a Poetica e Nessuno vuole essere Robin è il mio desiderio di consegnare canzoni che restino nella memoria delle persone per sempre». Nel 2008 la intervistò Edmondo Berselli. Disse che sembrava molto più preoccupat­o di nascondere che di mostrare. «Berselli colse la mia distrazion­e, l’ambizione di dover dimostrare qualcosa, che a quel tempo, in effetti, era prepondera­nte. In un momento in cui ero poco considerat­o, scuotere la sua attenzione mi parve comunque un ottimo risultato. Ma all’analisi psicologic­a mascherata da contenuto giornalist­ico non ho mai dato retta più di tanto perché non sento il bisogno di farmi psicanaliz­zare». Le è mai capitato? «Una sola volta e gli parlai di me per tre ore. A fine seduta, sfinito, mi disse: “Ho più bisogno io di lei, che lei di me”. Trovo da solo le mie risposte, ma so che valgono per me e non ho mai preteso valessero per tutti. Ho un’identità. Ho i miei cerchi concentric­i di protezione, che dalla famiglia si allargano fino agli amici, a Bologna e poi più in là». Perché è rimasto a Bologna? «Potrei dirle che una primavera più bella della nostra, in Italia, non esiste. Ma la verità è che più della fama, dei soldi e del successo, l’affetto di Bologna è il premio più grande che ho ricevuto nella mia carriera. Per rimettermi in forma in vista dei concerti, vado a camminare sui colli tutte le mattine. Lungo la strada vedo molti camioncini, a bordo, le persone che vanno a lavorare presto, si affacciano al finestrino per incoraggia­rmi. In un momento in cui l’odio sembra orientato verso chi ha molto, è un risultato che mi tengo stretto. I bolognesi non mi consideran­o solo un cantante, mi abbraccian­o e mi parlano come un loro figlio. Pensano che io conosca tutti, anche se in realtà non conosco nessuno e inizio solo adesso a conoscere me stesso». Che rapporto ha con la nostalgia? «Un rapporto di pura cortesia. Non mi rendo conto fino in fondo delle cose che ho realizzato e quindi non mi mancano. A dire il vero, ho più nostalgia del mio domani, che non mi sembra arrivare mai. Del tempo ho sempre faticato a segnare le tappe. Al polso, per dire, non ho mai portato un orologio». Si guarda con autoindulg­enza? «Se rileggo il mio passato attraverso le canzoni che ho scritto, sì. Quasi mi commuovo e ho voglia di abbracciar­mi. Di proteggerm­i». Perché? «Perché ho dato sempre tutto. Perché ho iniziato da bambino e ora sono un uomo. E perché in ogni mia canzone c’è un’idea o una persona in cui ho creduto follemente». Le canzoni sono la sua autobiogra­fia? «Certo, anche. Le canzoni o hanno una storia dentro o sono inutili». Ma lei, Cremonini, si piace? (Qui Cesare mette da un lato la sua spiccata sensibilit­à femminile, sorride, beve un sorso ormai caldo di una nota bevanda. Poi risponde, più seriamente di quanto forse non vorrebbe uno abituato a ridere di sé). «Sempre di più. In fondo sono un ammiratore di me stesso anche perché sono il mio critico più feroce. Se sai di avere una dote, sei anche il primo ad avvertirne la responsabi­lità». Dicevano: «Da solista non sopravvive­rà». «Convivo con le critiche e con le profezie da quando sono piccolo. Non sono figlio d’arte e mia madre e mio padre, un dietologo talmente impegnato nel lavoro da non riuscire neanche a immaginare che dalla mia passione nascesse qualcosa di duraturo, non hanno mai appoggiato la mia ambizione di vivere con la musica. Il tifo contro ce l’avevo in casa, ma, come dicevo in una mia vecchia canzone, ho iniziato a fregarmene molto presto di quel che dicevano di me. Mia madre voleva studiassi pianoforte. Mi mise sui tasti a sei anni. Quando mi vide con lo smalto sulle unghie e la chitarra in mano, fuor di metafora, me la diede sulla schiena: “Smetti di suonarla, delinquent­e”, disse. I sondaggi sfavorevol­i mi hanno sempre portato fortuna». A proposito. Salvini e Di Maio sono al governo. Che cosa pensa dei giovani in politica? «Essere giovani di per sé non è né una

«IL PREMIO PIÙ BELLO DELLA MIA CARRIERA È IL SALUTO DEI CAMIONISTI CHE ALL’ALBA VANNO A LAVORARE»

medaglia né un titolo. Sono le idee e le reali competenze a fare la differenza. Non l’età. Personalme­nte sento la mancanza di una formazione culturale in alcuni politici, un percorso di studi che sappia formare individui in grado di ricoprire alte cariche istituzion­ali. Un Paese come l’Italia lo merita». Rapporti con la critica? Oggi la incensa, ieri la trattava con sussiego. «Perdono facilmente gli stronzi di tutti i giorni, figuriamoc­i se non posso perdonare i giornalist­i. Le persone che hanno fatto dell’ascolto dei dischi un mestiere a volte percepisco­no le canzoni in maniera opposta a chi le assorbe normalment­e. Ed è per questo che grazie a Dio la cultura popolare va avanti anche senza i critici. Da qualche anno, è vero, mi trattano tutti con molto più rispetto, ma io mi sono sempre più fidato dei sentimenti che delle coccarde. Più che dei dischi io vorrei che la critica svelasse i volti celati dietro alle maschere». È importante il lusso della malinconia? «È una chiave di lettura di quel che ho fatto per tutta la vita. Quando Nick Hornby ha scritto Non buttiamoci giù, un libro che racconta la storia di alcune persone che stanno per lanciarsi nel vuoto dall’alto di un palazzo, gli hanno domandato perché avesse scelto un simile tema. Risposta: “Perché mi dà l’occasione di affrontare la mia parte malinconic­a e soprattutt­o di riscattarl­a”. È così anche per me. Non c’è una mia canzone che finisca male, il protagonis­ta si salva sempre. Consiglio vivamente a chiunque si senta giù di ascoltarmi. Fa bene. Garantisco». Le canzoni sono la panacea di tutti i mali? «Magari fosse così. Sono vitamine, integrator­i, ma non bastano, men che mai in un’epoca come questa, in cui ci si accontenta di mettere un like per far sapere a qualcuno che lo stai pensando, per dire cosa sentiamo. Grazie ai social non si è mai scritto così tanto da quando l’uomo ha imparato a farlo, ma la gente è sempre più impaurita. È necessario spiegare, argomentar­e. Ci vuole un perché, altrimenti ogni parere varrà come un altro». In Nessuno vuole essere Robin sostiene che siamo tutti più soli. «Tutti col numero 10 sulla schiena e poi sbagliamo i rigori». «Per scrivere Robin sono finito in mondi interiori difficili e misteriosi. Dentro c’è il mutismo di cui soffriamo tutti, l’umiliazion­e quotidiana del vivere in una società che si fa sempre più cinica, ma nasconde un’insicurezz­a cronica. Non sapevo più come farla uscire, e ci sono riuscito così. Le metafore calcistich­e sono un mio marchio di fabbrica e tornano periodicam­ente quando si apre un ritornello. Il calcio, anche se di partite in grado di accenderti l’anima ce n’è una all’anno, resta una bella rappresent­azione della natura umana. C’è lo scontro mentale e quello fisico, il tifo che è come una religione monoteista, la capacità dei singoli di collaborar­e tra loro: esiste un’organizzaz­ione di gioco studiata a tavolino e intuizioni degne della migliore filosofia». Lei a calcio ha giocato? «Da ala destra e sulle spalle non avevo il 10, ma l’11. L’allenatore da piccoli ci portava a correre sulla collina di San Luca, lungo un percorso in cui c’è un paradiso fatto di pianura, un purgatorio animato da una leggera salita e un inferno di 50 gradini per giungere alla basilica. Ora, che per smaltire i chili in più e prepararmi al tour a San Luca vado a correre, ogni tanto ripenso a quelle antiche partite e al sollievo di mia madre. Quando l’allenatore non mi convocava era felice e quando invece mi arruolava provava a dissuaderl­o: “Fa freddo, Cesare non l’ho visto bene, non potrebbe lasciarlo a casa?”». Da San Luca si vede lo stadio di Bologna. «Sì, a un certo punto della salita, lo stadio lo vedo nitidament­e. Sembra una cartolina. Mi fermo sempre lì a prendere fiato e penso che è bello essere il primo bolognese dopo Dalla a suonare nello stadio della mia città. Il primo in assoluto con un concerto tutto suo dal 1979». A Dalla forse il suo Robin sarebbe piaciuto. «Chi può dirlo? Lucio forse l’avrebbe apprezzata perché parla di noi ora, di oggi, ci descrive tutti ma lo fa utilizzand­o un ponte levatoio, qualcosa che si rifà ai modelli di ieri. E io penso che anche se Dalla con Bologna ha e avrà un legame sempre fortissimo, da quel legame non ci si debba fare imbrigliar­e. Con la storia dell’olimpo cantautora­le, Lucio non sarebbe mai stato lì a menarsela troppo, perché aveva questa caratteris­tica straordina­ria di parlare con il prete, il giornalaio e il travestito, di prendere da ognuno qualcosa e di essere profondame­nte contempora­neo. Dalla è stato il Michelange­lo della musica leggera». Cremonini vive anche di inquietudi­ni? «Tempo fa raccontavo a Pupi Avati di come, girando di notte per Roma, fossi stato colto dall’insicurezz­a. Buio, puttane, delinquent­i, un’atmosfera felliniana. Pupi ha sorriso e poi ha detto: “Cesare, non è Roma. Sei tu”». Fellini sognava un mondo in cui si potesse non scontentar­e nessuno. «Ci ho rinunciato. Mi sale subito la pressione, penso alle fidanzate scontente che si lamentano: “Sei sempre in studio”, ho una coda di paglia lunga da qui a Parigi». (Ride). Ne ha scontentat­e tante? «Forse e non perché, come sosteneva Paolo Sorrentino, nella vita e in amore il pareggio non esiste, o come diceva mio nonno, semplifica­ndo: “Sei un donnaiolo”. Ho sempre associato le mie ragazze alla scrittura, c’era una sovrapposi­zione tra quello che scrivevo e quello che vivevo. Ora mi sono liberato anche di questo. Scrivo ancora canzoni romantiche, ma non sono più necessaria­mente legate a una vera storia d’amore». In concerto ne porterà molte. Come se la immagina questa prima in uno stadio? «Come il centro dell’uragano. Ho la sensazione che interiorme­nte sarà tutto calmo e il cielo sarà limpido, ma intorno soffierann­o emozioni a 500 all’ora. Ci vedo tutto, in questo concerto. Il passato, il percorso che ho fatto e anche, soprattutt­o, il futuro. Era il mio sogno: da bambino non ho sognato di vincere una sola volta, ma di vivere così tutta la vita. Io vado negli stadi perché vorrei restarci».

Pag. 45: tuxedo e camicia, Paul Smith. Pagg. 46-47: giacca e T-shirt, Corneliani. Jeans, J Brand. Scarpe, Henderson. Pagg. 48-49: camicia e pantaloni, Giorgio Armani. Cintura, Masel. Stringate, Henderson. Pag. 52: giacca tuxedo, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Camicia, Giorgio Armani. Hanno collaborat­o Paola De Cegli e Angelica Torelli. Make-up Anita Alberti. Hair Manuel Iadevaia@Franco Curletto. Si ringrazia per la location Golf Club Le Rovedine, Milano.

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