Scusa, maestro Jiro
Questo bancone sotto il metrò di Tokyo è una leggenda per gli appassionati del sushi: Sukiyabashi Jiro, il regno del venerando Ono, ma i 21 pezzi arrivati sul piattino (e l’ospitalità) molto al di sotto della fama
L’esperienza gastronomica che sto per descrivere è stata una grande lezione di vita per me: foriera di una delusione così grande, mi ha dato la possibilità di riflettere sul concetto di aspettativa, sulle proiezioni del desiderio… Sono appassionato di cucina giapponese, ormai lo avrete capito, e della cultura del cibo in Giappone. La ricerca inesausta e concentratissima per la perfezione, l’idea che il senso del gusto si racchiuda nella sintesi di un sapore, nella cura assoluta per l’ingrediente, animale o vegetale che sia. La ritualità e il senso dell’ospitalità giapponesi poi sono inimitabili. Sedotto come molti dal film Jiro e l’arte del Sushi (Jiro Dreams of Sushi, 2011), dove, grazie all’occhio curioso e febbrile del regista David Gelb, entriamo in contatto strettissimo con l’arte di Jiro Ono, maestro dell’omakase (il pasto dove lo chef sceglie il dipanarsi della vostra cena), ho a lungo aspirato a sedermi al bancone di questa leggenda. Ah! Lo sconforto venti minuti dopo: sì, perché l’intera cena di questo piccolo locale, Sukiyabashi Jiro, sottoterra nella stazione della metropolitana di Ginza nel quartiere di Chuo a Tokyo, dura letteralmente 20 minuti. Bisogna prenotare con molti mesi di anticipo e un ritardo di anche 5 minuti non viene tollerato. Un po’ intimidito mi siedo sul muretto di fronte l’ingresso che simula un classico inn di campagna, porta con carta di riso e mini giardino giapponese etc. etc. con largo anticipo. Altri ospiti del ristorante arrivano alla spicciolata, tutte persone locali. All’orario di apertura, le 19, una giovane donna in kimono apre la porta, si affaccia e invita con un cenno a entrare i… giapponesi. Io mi alzo e vado per accomodarmi ma vengo bloccato rudemente. Spiego che ho una prenotazione da mesi, mi lasciano fuori ancora per diversi minuti e poi tornano, sembrano seccati, e mi portano nell’angolo più estremo del bancone, seduto al confine con la piccola cucina, servito da uno dei sous chef che riconosco dal film di Gelb. orrido, mi inchino e provo deferenza. Mi ignorano. Quello che accade è che semplicemente il sous chef inizia a scaricare sul mio piattino quadrato di lacca una gragnuola di pezzi di sushi, il seguente già là agonizzante prima che abbia deglutito il precedente. A memoria: ottimo saba (sgombro), buoni unagi (anguilla) e sayori (una specie di pesce spatola) e poi una spirale di opacità, trasandatezze e delusioni, dalle kohada (sardine) agli uni (ricci di mare). L’ o-toro (ventresca di tonno) era filamentoso e le shako (la cicale di mare) erano stracotte e sgradevoli al palato perché incinte e le uova trasformate in sabbia dall’eccessiva cottura. Colpito dal dipanarsi di questa esperienza e incalzato da 21 pezzi senza fiato, privo della possibilità di assaporarli per bene ho osservato con cura la dinamica del locale, l’arcigno imperio dell’anziano Jiro, il disdegno aristocratico nei confronti del gaijin, lo straniero. Allo scoccare dell’ultimo pezzo, la chiusura del pasto, la classica tamago (una sorta di frittata dolce) era molto ma molto al di sotto della sua fama e la signorina in kimono mi presenta il conto, 400 euro in contanti. Malinconico e impoverito in ogni senso dall’esperienza esco nell’afa umida di Ginza ripensando al film e mi ricordo del giovane allievo terrorizzato dal maestro. Umile e determinato a raggiungere l’eccellenza, quell’allievo si chiama Nakazawa. Adesso ha un ristorante a New York a suo nome dove con umiltà ha superato Jiro, chiuso nell’orgoglio arrogante di una leggenda non più tale. Ne riparlerò la prossima settimana.
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