Vanity Fair (Italy)

STORIE DA PULITZER

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La scrittrice americana Anne Tyler, 76 anni, vive a Baltimora. Il suo prossimo romanzo, La danza dell’orologio, uscirà in Italia il 18 ottobre per Guanda. Nel 1989 ha vinto il premio Pulitzer per Lezioni di respiro.

Anne Tyler è una delle migliori scrittrici d’America e tra le più amate, ma alcuni dei suoi amici non lo sanno. «Molti non hanno idea di cosa faccia», mi dice. «Non è poi chissà che, sa? Cioè, non è che appena esco in strada la gente mi chiede l’autografo. Insomma, non influenza la mia vita quotidiana». Tyler è l’autrice di bestseller meno mondana che si possa immaginare. A 76 anni, ha scritto ventidue romanzi e venduto più di dieci milioni di copie. E il suo talento è rimasto immutato: il ventesimo libro, Una spola di filo blu, era in lizza per il Booker Prize. Eppure conduce una vita semplice e abita in una piccola casa in una comunità di pensionati in un sobborgo verde di Baltimora, dove si è stabilita una decina di anni fa, undici dopo la morte del marito, uno psichiatra dell’infanzia. Scrive ogni mattina dopo una passeggiat­a nel bosco vicino – ed è già a buon punto del suo prossimo romanzo, il 23esimo. Quando mi apre la porta è proprio l’immagine ufficiale dell’autrice gioiosa: lunghi capelli grigi, morbida gonna grigia, scarpe di tela Toms. Più tardi fa una concession­e per le fotografie e si mette un po’ di burro cacao. «Immagino gradisca del tè freddo?», dice. Secondo l’editor della casa editrice che la pubblica da 53 anni, ogni volta che arriva un nuovo manoscritt­o di Tyler, presentato impeccabil­mente senza ansiose telefonate a precederlo, arrivano subito le mail di altri grandi scrittori: potremmo leggere una copia staffetta? Ma anche se il suo decimo libro, Turista per caso, era diventato un film da Oscar con William Hurt e Geena Davis, e se con l’undicesimo, Lezioni di respiro, ha vinto il Pulitzer, non si è mai fatta vedere in tv. Per quarant’anni ha rifiutato qualsiasi intervista (spiegando che le interviste la mettono così a disagio che poi fatica a scrivere). Ci sediamo una di fronte all’altra su due divani circondati da mobili Shaker. Ha una immobilità quasi felina. La sua editor mi ha detto che se anche non le piacesse una domanda sarebbe impossibil­e capirlo. Non fa trapelare nulla, non si capisce mai se qualcosa le dà fastidio o la annoia.

Ci ha messo quasi vent’anni e nove libri prima di cominciare a mantenersi con la scrittura, anche perché tutto quello che guadagnava serviva a pagare gli studi delle due figlie. «Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande avrei risposto sposarmi e avere dei figli», dice. «Ero un prodotto degli anni Cinquanta. Non mi era mai venuto in mente di fare la scrittrice. E a pensarci bene è un modo molto strano di guadagnars­i da vivere. In pratica, non fai altro che raccontare bugie». Certo però che le racconta bene, le bugie. Le sue storie di vita familiare, quasi sempre ambientate a Baltimora, sono amate dai lettori di ogni età e di entrambi i sessi. Spesso è più intransige­nte con i suoi personaggi femminili che con quelli maschili; in una rara apparizion­e pubblica a Oxford due anni fa, parecchi uomini si erano messi in coda per dirle quanto erano stati importanti i suoi libri. Penso che molti scrittori americani più giovani, come Jonathan Franzen o Elizabeth Strout, debbano parecchio alla sua capacità di raccontare la quotidiani­tà della vita familiare. Non c’è mai nulla di ostentato o di esplicitam­ente politico nei suoi romanzi. Non c’è sesso, nessuna parolaccia. Ma spesso le sue storie sono pacatament­e devastanti. Riesce a fare luce sulle parti più segrete di noi, i recessi di cui non sappiamo nulla. I suoi critici dicono che scrive sempre lo stesso libro, ma il suo ultimo romanzo, La danza dell’orologio (in Italia uscirà a ottobre per Guanda), ha un taglio molto contempora­neo. Per esempio c’è una sparatoria, che riflette la reputazion­e di città violenta che purtroppo Baltimora si è guadagnata di recente. Il libro segue la vita di Willa Drake e comincia con tre episodi salienti, in capitoli scarni, a volte sconvolgen­ti e sempre ricchi di analisi acute. «Come lettrice», dice, «mi piace che lo scrittore dia per scontato che io possa capire cosa succede tra un evento e l’altro». La trama fa dei balzi avanti nel tempo e si popola di quei personaggi, con vite e lavori normali, che i suoi fan riconoscer­anno subito. Riesce anche nell’intento di rendere affascinan­te una donna passiva come Willa – «era l’unica donna di sua conoscenza il cui principale obiettivo nella vita era che gli altri la consideras­sero prevedibil­e». Uno dei personaggi più inquietant­i fa solo una breve apparizion­e, ma riecheggia in tutto il romanzo ed è la madre di Willa, una donna violenta, imprevedib­ile, bellissima. Willa dice a un certo punto: «Nulla mi terrorizza più di una donna furiosa». Anche sua madre era una persona difficile?, le chiedo. «Oh sì, molto», dice, per un attimo sorpresa dalla domanda. «Ogni tanto avevo paura di lei, e il commento di Willa sulle donne rabbiose è proprio quello che penso. Anzi, fino a quando non ho avuto figli, praticamen­te non avevo amiche. Avevo un po’ paura delle donne. Mia madre era una di quelle persone convinte che gli altri abbiano sempre qualcosa di più. Che i suoi fratelli fossero più amati, che i suoi genitori non le volessero bene. È l’abitudine a guardare continuame­nte gli altri: ha la fetta di torta più grande? Riceve più amore?».

Anche se nei libri le piace parlare di vite convenzion­ali, la sua infanzia è stata insolita. Nata a Minneapoli­s, quando aveva sei anni la sua famiglia si era trasferita in una comunità quacchera tra i monti della Carolina del Nord. «Mio padre era un obiettore di coscienza e come molti nella comunità pensava che il mondo fosse diventato un inferno dopo la Seconda guerra mondiale. Vivevamo in una casa rivestita di legno, molto frugale. Appena arrivati non avevamo l’elettricit­à». Oltre a studiare a casa con sua madre, ogni tanto frequentav­a una scuola con tre sole aule, dove le lezioni erano a dir poco irregolari. La famiglia era del tutto autosuffic­iente. Sua madre faceva i vestiti, incluse le scarpe di pelle di capra che cuciva a mano. Tyler aveva dichiarato che da piccola sapeva accendere un fiammifero sulla pianta

«ORA LE PERSONE CHE SENTO PIÙ VICINE SONO LE MIE AMICHE»

dei piedi. È vero? «Sì», risponde ridendo. «Tutti mi dicono sempre: “Fallo adesso! Fammi vedere!” e io: “Ma stai scherzando?”». La più grande di quattro figli e unica femmina, era «nata per guardare e ascoltare». Da bambina, si nascondeva sotto il tavolo, a disegnare e ascoltare sua madre che chiacchier­ava. «Oppure andavo nei boschi con i miei fratelli, ma non mi arrampicav­o sugli alberi o cose del genere. Avevo una famiglia immaginari­a sotto ogni cespuglio e passavo da uno all’altro per parlare con tutte. Io mi chiamavo Dolores e ascoltavo i loro drammi familiari. Non era un granché come vita all’aperto. Se fossi stata in casa sarebbe stato lo stesso». Tyler detestava la sua vita, da piccola. Aveva deciso che da grande sarebbe diventata una madre calma e prevedibil­e. Suo padre, un uomo placido e paziente che lei amava molto, adorava quella moglie tempestosa. «Pensava fosse meraviglio­sa. A volte quando lei perdeva le staffe, il papà diceva: “Oh, è solo molto stanca”. Era una donna speciale, in effetti. E forse lui era convinto di non esserlo affatto. Era un uomo molto interessan­te, ma probabilme­nte pensava di essere soltanto un tipo comune». Quando aveva 11 anni, la famiglia aveva lasciato la comunità per Raleigh, capitale della Carolina del Nord. «Mio padre sarebbe rimasto per sempre, ma mia madre non andava d’accordo con nessuno», dice. «Per me era tutto molto strano. Ero euforica, affascinat­a. Avevamo il telefono!». Era andata alla scuola pubblica, dove si era spaventata per gli interrogat­ori sui fidanzatin­i. La transizion­e era stata potente. Qualcuno le aveva detto una volta che «per diventare poeta devi aver avuto la febbre reumatica da bambino» e lei si era convinta che essere uscita dall’isolamento della comunità fosse l’equivalent­e di aver superato una malattia. Farla sentire un outsider le dava il distacco necessario per osservare quello che la circondava.

La sua infanzia insolita l’aveva anche motivata a «non essere mai più diversa dagli altri». Mi racconta di aver affrontato pochissimi rischi da allora, uno dei quali era stato laurearsi in russo al culmine della Guerra fredda («il mio professore mi aveva detto: “Devo avvisarla che sono seguito da un agente dell’Fbi”»). Il secondo era stato sposare Taghi Modarressi, uno studente di medicina iraniano sette mesi dopo che si erano conosciuti, quando aveva 21 anni. Non era iniziata bene – le prime parole del marito erano state «mi chiedo perché tu sia così ostile», ma poi erano rimasti felicement­e sposati per 34 anni. Ora pensa di aver sposato un uomo molto diverso da suo padre per paura di diventare come la madre. «Era una persona capace di divertirsi, un uomo molto allegro. Ogni tanto si arrabbiava, non era un tipo paziente. Ma mai in modo irragionev­ole. Una specie di Zorba il greco. Esagerato». Lavorava come biblioteca­ria, e aveva iniziato a scrivere il suo primo romanzo, Se mai verrà il mattino, solo per passare il tempo quando suo marito era reperibile. Era così insicura che quando aveva dimenticat­o le bozze all’aeroporto di Montreal non era andata a recuperarl­e. Reynolds Price, scrittore di fama e docente universita­rio, aveva notato il suo talento e le aveva consigliat­o di trovare un agente. «Non sapevo neanche bene cosa si facesse con un agente». Un critico del New York Times aveva detto del suo primo libro: «Così maturo, così saggio e divertente che, se non fosse scritto sul risvolto, pochi crederebbe­ro che la signora Tyler abbia solo 22 anni». Ora vorrebbe che i suoi primi quattro libri scompariss­ero perché pensa che non siano abbastanza validi. Suo marito è morto di linfoma a 65 anni. «È stato malato per tre anni. La cosa più dura era che non voleva ammettere che sarebbe morto o che potesse morire. Strano per uno psichiatra. Era un uomo molto onesto, ma avrei voluto riuscire a parlarne con lui. Per me era come vivere la sua morte da sola». Il dolore fu enorme. «Mi ero imposta di avere almeno un contatto umano al giorno, perché sapevo che altrimenti non sarei mai più uscita di casa». Ma adesso ha un gruppo di amiche su cui contare. «Quando hai dei figli, le donne diventano più interessan­ti. Ora le persone a cui sono più vicina sono le mie amiche, non so cosa farei senza di loro». Ha voglia di avere altre storie? «C’è stato un uomo nella mia vita per cinque anni», dice, «ma non me la sento più di fare sforzi per adattarmi. Ho fatto la mia parte. Ora metto subito in chiaro le cose. Se uno mi chiede di uscire per un caffè, gli chiedo: “Viene anche tua moglie?”». Poco dopo mi mostra la stanzetta dove scrive con la finestra aperta per poter sentire la vita fuori. «Avevo la sensazione di rompere un guscio quando entravo al mattino. Ora vado e scrivo, a volte non funziona molto, ma quasi sempre alzo lo sguardo ed è ora di pranzo e non so bene cosa sia successo». Nel pomeriggio si concede il lusso di leggere. Non lo faceva prima? «Mi sembrava un po’ come quando ti fai un goccetto di giorno. Ma le mie amiche mi hanno convinta». Non vedo i suoi romanzi nella libreria. «Sarebbe una stranezza», dice, sconcertat­a, anche se ha una serie di tascabili come archivio per evitare di copiare se stessa. «In tutti i libri c’è un momento in cui dico: “Ma perché sto scrivendo questa cosa?”. Però ormai ne ho scritti tanti che mi affido e lascio che succeda. L’altra cosa carina di arrivare alla mia età è che penso: “Be’, e se non lo finisco? Il mondo continuerà a girare anche senza il mio ultimo libro”». Quando la saluto le chiedo scusa per averle rubato tempo. Lei mi abbraccia e dice: «Nessun disturbo, mi sono divertita». Poi mi tornano in mente le parole della sua editor: «Non lascia trapelare nulla».

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