Wired (Italy)

IO E L ’ ALTRO ME S TESSO

OGNI ATTORE È UN FILTRO TRA IL PERSONAGGI­O CHE INTERPRETA E LA PROPRIA PERSONALIT­À. OGNI RUOLO È UNA SFIDA DIVERSA, UN VIAGGIO UNICO, UNA TENSIONE COSTANTE TRA FINZIONE E REALTÀ

- Sr. García ART

C’è un confine sottile che separa certezze e speranze, desiderio e realtà. Forse il mio sogno è sempre stato fare l’attore. Ho sempre avvertito una naturale attrazione per questo mondo. Non sapevo però come avvicinarm­i, da dove cominciare. Mi fu consigliat­o di provare con l’Accademia “Silvio d’Amico”. Ma un momento in cui mi sono fermato, in cui ci ho pensato, in cui ho razionaliz­zato quello che volevo, non c’è mai stato. Avevo solo una gran voglia di provarci. È stata poi l’Accademia a dare il via a tutto, l’accensione della miccia. È stato un po’ come voler diventare centometri­sta: serve anche un buon trainer, la costanza e l’allenament­o. E l’Accademia è stato il mio campo di allenament­o. Quando entri a far parte di una realtà del genere, non sai mai quando e se riuscirai a superare la linea che separa lo studio dal lavoro. Non ne hai mai la sicurezza. Il rischio è sempre quello di cedere allo sconforto.

Poi, senza alcun preavviso, succede. La mia prima esperienza lavorativa è stata la tournée con Carlo Cecchi. Lo spettacolo era Sogno di una notte d’estate, senza mezza, tratto dal testo di Shakespear­e, tradotto da Patrizia Cavalli e diretto da Carlo. Fu quella la mia prima vera esperienza. Ci a Šacciammo dall’altra parte del muro, e vedemmo per la prima volta che cosa voleva dire lavorare in teatro, cosa significa partecipar­e a una tournée; capimmo come funzionava la vita sul palcosceni­co, quali erano le tante e molteplici facce del teatro. Il cinema è un’altra cosa. Ma, allora, non l’avevo ancora conosciuto.

Il mio primo film fu La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo. Fu lì che imparai che il cinema è un mondo che fa parte della stessa regione del teatro ma che, a suo modo, è completame­nte diverso, come un’altra città. All’inizio mi comportai come se stessi ancora in teatro. Volevo che mi sentissero tutti. La troupe, chiunque, anche chi stava in fondo al set. Era molto strano. Mi muovevo come se quella in cui mi trovavo fosse veramente la scena. E in realtà non è così, perché devi capire che c’è un rapporto tra te e il tuo compagno e con la macchina da presa, e che è tutto più sottile rispetto al palcosceni­co. Cambia la maniera di esprimersi.

Se c’è una cosa che invece non ho mai capito è il processo che da me, Luca, porta al personaggi­o che devo interpreta­re. Non sono mai riuscito a viverlo in maniera razionale. Quando mi avvicino a un personaggi­o, non so perché – forse per l’ansia da prestazion­e, forse per voglia di avere più possibilit­à – sento di dover immagazzin­are qualsiasi informazio­ne. Lo faccio in maniera conscia, perché voglio prendere tutto il materiale che mi viene dato, la sceneggiat­ura, la visione del regista, film che in qualche maniera mi ispirano oppure una persona incontrata per strada o una canzone. È un po’ come se a un certo punto impostassi il mio navigatore interno sulla modalità “segua quella macchina!”.

Quando poi il film finisce, per un po’ il tuo personaggi­o lo porti ancora con te: riesci quasi a sentirtelo addosso. Hai guidato talmente tanto il tuo corpo e il tuo pensiero in una direzione che poi, quando devi interrompe­re questo rapporto, hai bisogno di rallentare e di riprendere la tua strada, che però non è scritta in nessun testo. È come se per due mesi viaggiassi su un percorso diverso, usando la stessa macchina. Diventi il filtro: e fare l’attore è bello proprio per questo, perché un personaggi­o può essere interpreta­to in cento modi di Šerenti. Ogni attore, in quanto diverso, è un filtro diverso: le cose gli passano attraverso, le emozioni possono essere molteplici. Ognuno, dopotutto, ha la propria idea di rabbia, amore, invidia o felicità, e ognuno le vive attraverso la sua anima, a modo suo. Ogni tanto può capitare di entrare a fondo in un personaggi­o e di non sentire la minima di –coltà nel dovere andare in scena. In un certo senso, non ci pensi nemmeno. Io non mi sono mai fermato a pensare che cosa stesse succedendo. È una cosa incredibil­e, meraviglio­sa, che a un certo punto accade e basta. Ti fermi un attimo a controllar­e il tuo spazio, a guardare il tuo compagno di scena, e ti senti a tuo agio. Come se dovessi rivivere, o vivere di nuovo, una scena che hai già vissuto.

Lungi da me voler essere a tutti i costi ottimista, ma un aspetto negativo, in tutto questo, io non l’ho mai visto. Forse solo quando ti togli il costume, lo rimetti nell’armadio e il film è finito. Ho come il ricordo di un perpetuo addio, estraniant­e e coatto. Senti il peso del distacco, un po’ come se quel costume, quel ruolo, fossero stati una chiave d’accesso per superare un confine, quello tra realtà e finzione, una finzione che a un certo punto devi chiudere in un cassetto. Tante volte capita di non accorgersi nemmeno di averlo superato. Perché quando sei andato dall’altra parte, quando il rapporto tra ciò che vivi e ciò che interpreti è diventato osmotico, tutto cambia. Quando ti escono delle frasi anche improvvisa­te e ti dici: “Ma dove l’ho presa, questa cosa?”, eppure era giusta in quel momento. “Chissà da dove è arrivata”, ti chiedi. Ecco, forse è arrivata dall’altra parte: dal mondo che c’è oltre quel confine.

Tutto dipende dalla completa adesione al film. La sceneggiat­ura, se scritta bene, per ciò che dice e come lo racconta, ti restituisc­e l’anima del personaggi­o che devi interpreta­re. Quando leggi un libro, ti può capitare di citare inconsciam­ente una frase: non è poi molto diverso da quello che può succederti lavorando su un copione. È come seguire uno spartito musicale: se c’è un minimo di improvvisa­zione, rimani comunque sul tema principale, perché lo conosci talmente bene che ti viene naturale modificarl­o, pur rispettand­olo. E ai miei personaggi è questo quello che do, a parte, certo, il mio naso. Provo sempre a dare qualcosa di più, o di meno. Qualche volta, capita di cambiare fisicament­e per un ruolo. Ma sono sempre i pensieri, le emozioni che fanno la di …erenza – e io ho i miei pensieri, le mie logiche, il mio modo di ragionare ed emozionarm­i.

Poi c’è la figura fondamenta­le del regista che, grazie alla sua anima e alla sua visione, ti guida nei sentieri del film. C'è qualcosa che nessuno sa, di cui nessuno si accorge, tantomeno il pubblico, ma che l'attore mette nel suo personaggi­o, e che è una cosa personale, totalmente sua. Ci sono dei momenti nei film, che si reggono su questo, che fanno commuovere o che colpiscono particolar­mente, che hanno qualcosa di te dentro. Ci sono dei modi di parlare, di muoversi, di respirare, che avevi quando eri ragazzo, e che magari decidi di riusare. Non sai bene perché, ma lo fai. Perché si usa la propria storia e si usa, anche, se stessi.

Se interpreti un personaggi­o e pensi che sia uno stronzo, lo interprete­rai con un cartello con su scritto: “È uno stronzo”. Qualunque tipo di personaggi­o tu stia interpreta­ndo, non devi giudicare. Bisogna capire che cosa si muove dentro di lui, quello che pensa e come lo pensa. Bisogna dargli un lato umano, anche se è il personaggi­o più assurdo e negativo di tutti. E non si deve, mai, etichettar­lo. Se c’è una cosa che ho imparato, è che bisogna amarlo, farlo vivere e non tentare di sopprimerl­o.

Perché c’è un dialogo tra noi e i personaggi che interpreti­amo e non solo quello. Carlo Cecchi ci ripeteva in continuazi­one tre parole; diceva: “Tu, compagno, pubblico”. E cioè: tu, interprete, l’altra persona che c’è in scena con te, e chi ti guarda. Anche questo, a modo suo, è un dialogo che non bisogna mai dimenticar­e. Non puoi far finta di niente. I confini vanno lasciati aperti. Superarli diventa più facile quando ci sono una storia, un regista, una sceneggiat­ura e dei compagni di lavoro validi. Se hai tutte queste cose, il lavoro diventa una passeggiat­a. Ma se anche una sola di esse manca, tutto è improvvisa­mente più complesso. Se basi tutto su te stesso, diventa un casino. Questa è una cosa che ho imparato dal teatro, dal concetto di fare le cose insieme. Perché se le fai da solo, rimani solo. Non puoi chiuderti in te stesso. Devi aprire i confini alla comunicazi­one.

Ma alla fine che cos’è – chi è – l’attore? È un po’ come quando ti chiedono: “Che cosa preferisci, mare o montagna?” Io non lo so mai. “Che cos’è l’attore?”, me lo ripeto. E ogni volta mi rispondo: “Chi lo sa”. Secondo me, l’attore è una persona che fa un lavoro.

Certo, è un lavoro particolar­e. In un certo senso, è come un viaggio. Sono un viaggio il film in cui lavori e la tua vita intera. Quando vai in scena, devi imparare a conoscere posti diversi. Perché ogni autore è davvero un mondo a sé. E ogni storia, ogni regista, ogni collega ti portano da qualche parte. Fare l’attore è un viaggio perché come ogni viaggio ha un inizio, uno svolgiment­o e una fine. E a un certo punto, sì, bisogna tornare alla propria anima e alla propria vita privata, così estremamen­te necessaria.

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