Wired (Italy)

IL LUOGO DELL’ALTRO

Viviamo tempi di cambiament­o, di velocità. Niente è oggi come era ieri. E ogni previsione sul domani si rivela infondata. L’unica prevedibil­ità che i nostri tempi ci concedono è la certezza dell’imprevedib­ilità delle cose. Normale che con i cambiament­i ve

- DI Federica Mogherini

ALTO RAPPRESENT­ANTE DELL’UNIONE EUROPEA PER GLI AFFARI ESTERI EL APOLITICA DI SICUREZZA

ART

Lui Ferreyra

Illustrato­re e street artist di Denver

era un tempo in cui la frontiera evocava grandi sfide, emozione, scoperta. Progresso. Oggi, il confine diventa muro. Limite, spesso autoimpost­o. Recinzione, protezione verso un “fuori” che fa enormement­e paura. Ed è paradossal­e che proprio nel momento in cui il mondo è realmente divenuto globale, con connession­i fisiche e virtuali che coprono l’intero pianeta in tempo reale e senza alcun limite, si tenda a perdere consapevol­ezza del fatto che anche chi sta “al di là del muro” può avere paura di ciò che noi consideria­mo sicuro, perché noto. Se si interpreta il confine come separazion­e, come recinto, come muro, si perde molto. Innanzitut­to, la libertà. Ogni muro che costruiamo tiene fuori l’altro ma, al tempo stesso, rinchiude noi in uno spazio chiuso. Il massimo della sicurezza è una gabbia. Ci si può chiudere dentro e guardare il mondo dietro a una pellicola impermeabi­le, senza contaminaz­ioni, senza interazion­i – reali o virtuali che siano. Così, ciò che muore è non solo la libertà ma la vita stessa.„

Poi, si perdono la propria storia, la propria identità, l’essenza della propria cultura. Molto spesso si evocano separazion­i e confini a protezione della purezza dell’identità. Senza rendersi conto – o negandolo in malafede – che ognuno di noi è figlio di infiniti “sconfiname­nti”, incontri, viaggi.„

Quando noi italiani„chiediamo al bar ciò che abbiamo di più italiano, ca ˆè e zucchero, non ci rendiamo conto che usiamo parole arabe. Quando diciamo “fazzoletto” o “sca ˆale” parliamo longobardo. Senza il pomodoro, che qualcuno che attraversò i confini portò dalle Americhe, né la pizza né la pasta sarebbero la stessa cosa. La nostra cultura, quella italiana, non sarebbe quella che è se non avessimo importato dalla Grecia la filosofia, il mito, il concetto stesso di democrazia. O dal Medio Oriente la cultura ebraica e cristiana. O se non vi fossero state le grandi migrazioni di popoli germanici, slavi, asiatici. La nostra cultura europea non sarebbe la stessa senza l’incontro col mondo arabo e musulmano, con le culture dell’America Latina.

Questo siamo noi: i pronipoti di chi non si è chiuso o fatto rinchiuder­e dentro confini ma li ha attraversa­ti. Per motivi più o meno nobili: bisogno, conquista, curiosità intellettu­ale. Dalla filosofia alla scienza, alla poesia, persino alla cucina, l’Europa è diventata grande nella diversità, nella ricchezza che superare i confini porta, sempre.„ Noi italiani dovremmo saperlo bene. Non serve andare troppo indietro nel tempo. Siamo un popolo di

C’

migranti, lo eravamo nel secolo scorso e – in modo nuovo e diverso – lo siamo ancora. Sono italiani i cognomi di tante persone che ho incontrato in questi anni in Belgio come in Germania, in America Latina come negli Stati Uniti. Sono italiani i cognomi di artisti, scienziati, grandi attori figli dell’immigrazio­ne.

Non hanno fatto grande solo il paese in cui vivono o sono vissuti: hanno fatto grande la cultura, la scienza, la musica, il cinema di tutto il mondo. E l’hanno fatto perché non si sono chiusi o non si sono fatti rinchiuder­e dentro confini. Il presidente dell’Argentina ha un cognome italiano, così come il sindaco di New York. E camminando per le strade di tante città d’Europa, dell’Australia o del Canada, se si sente parlare italiano non si tratta necessaria­mente di turisti – che, pure, hanno anche loro “attraversa­to il confine”.

Infine, a trasformar­e i confini in muri si perde il senso della realtà. Di com’è la vita vera. Vedo crescere confini artificial­i, non sempre‹visibili ma di Žcilissimi da relativizz­are o da attraversa­re. Confini nei cuori e nelle menti, confini tra comunità, confini di sangue e di confession­e. Confini che fino a poco tempo fa non esistevano, che non hanno radici storiche ma che sono a volte il paravento dietro cui si nascondono giochi di potere o di banale denaro.‹

In Siria e in tutto il Medio Oriente, per secoli, sunniti e sciiti, alauiti, arabi e curdi, ebrei e cristiani hanno convissuto nelle stesse città, negli stessi quartieri. Nei Balcani i matrimoni misti, che un tempo erano la norma, sono diventati una rarità. ‹

Non è una tendenza inarrestab­ile, un destino scritto. La storia non procede per inerzia, sono le donne e gli uomini a farla. Mitrovica, in Kosovo, è stata per decenni una città divisa da un fiume e dalla guerra. Durante la primavera scorsa siamo riusciti, dopo un lungo negoziato, a far riaprire il ponte che unisce le due sponde dell’Ibar – e le due comunità, kosovara e serba. In tal modo quel confine è diventato, nella realtà e nel simbolo, un ponte. Sono serviti coraggio, visione, capacità di ‹immaginare la riconcilia­zione, una vita diversa: lasciarsi alle spalle il dolore del passato per non consentire all’odio di avvelenare anche il presente. Ci vuole a volte molto più coraggio per fare la pace, che la guerra.

Lo stesso coraggio e la stessa visione li ho sentiti tante volte nelle parole dei siriani che ho incontrato in questi anni di conflitto: un desiderio fortissimo di normalità, di pace, di riconcilia­zione, di pluralità e diversità, di ricostruir­e nel tempo uno spazio comune senza barriere etniche, politiche e confession­ali. Evitando che il confine separi – al contrario, consentend­ogli di congiunger­e, unire. Il confine non è il luogo dove finisce ciò che è nostro e cominciano i pericoli. È dove inizia l’altro, che sia un essere umano o un paesaggio nuovo, dove iniziano opportunit­à, futuro. Non è un argine, ma una porta.

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