IL LUOGO DELL’ALTRO
Viviamo tempi di cambiamento, di velocità. Niente è oggi come era ieri. E ogni previsione sul domani si rivela infondata. L’unica prevedibilità che i nostri tempi ci concedono è la certezza dell’imprevedibilità delle cose. Normale che con i cambiamenti ve
ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE EUROPEA PER GLI AFFARI ESTERI EL APOLITICA DI SICUREZZA
ART
Lui Ferreyra
Illustratore e street artist di Denver
era un tempo in cui la frontiera evocava grandi sfide, emozione, scoperta. Progresso. Oggi, il confine diventa muro. Limite, spesso autoimposto. Recinzione, protezione verso un “fuori” che fa enormemente paura. Ed è paradossale che proprio nel momento in cui il mondo è realmente divenuto globale, con connessioni fisiche e virtuali che coprono l’intero pianeta in tempo reale e senza alcun limite, si tenda a perdere consapevolezza del fatto che anche chi sta “al di là del muro” può avere paura di ciò che noi consideriamo sicuro, perché noto. Se si interpreta il confine come separazione, come recinto, come muro, si perde molto. Innanzitutto, la libertà. Ogni muro che costruiamo tiene fuori l’altro ma, al tempo stesso, rinchiude noi in uno spazio chiuso. Il massimo della sicurezza è una gabbia. Ci si può chiudere dentro e guardare il mondo dietro a una pellicola impermeabile, senza contaminazioni, senza interazioni – reali o virtuali che siano. Così, ciò che muore è non solo la libertà ma la vita stessa.
Poi, si perdono la propria storia, la propria identità, l’essenza della propria cultura. Molto spesso si evocano separazioni e confini a protezione della purezza dell’identità. Senza rendersi conto – o negandolo in malafede – che ognuno di noi è figlio di infiniti “sconfinamenti”, incontri, viaggi.
Quando noi italianichiediamo al bar ciò che abbiamo di più italiano, ca è e zucchero, non ci rendiamo conto che usiamo parole arabe. Quando diciamo “fazzoletto” o “sca ale” parliamo longobardo. Senza il pomodoro, che qualcuno che attraversò i confini portò dalle Americhe, né la pizza né la pasta sarebbero la stessa cosa. La nostra cultura, quella italiana, non sarebbe quella che è se non avessimo importato dalla Grecia la filosofia, il mito, il concetto stesso di democrazia. O dal Medio Oriente la cultura ebraica e cristiana. O se non vi fossero state le grandi migrazioni di popoli germanici, slavi, asiatici. La nostra cultura europea non sarebbe la stessa senza l’incontro col mondo arabo e musulmano, con le culture dell’America Latina.
Questo siamo noi: i pronipoti di chi non si è chiuso o fatto rinchiudere dentro confini ma li ha attraversati. Per motivi più o meno nobili: bisogno, conquista, curiosità intellettuale. Dalla filosofia alla scienza, alla poesia, persino alla cucina, l’Europa è diventata grande nella diversità, nella ricchezza che superare i confini porta, sempre. Noi italiani dovremmo saperlo bene. Non serve andare troppo indietro nel tempo. Siamo un popolo di
C’
migranti, lo eravamo nel secolo scorso e – in modo nuovo e diverso – lo siamo ancora. Sono italiani i cognomi di tante persone che ho incontrato in questi anni in Belgio come in Germania, in America Latina come negli Stati Uniti. Sono italiani i cognomi di artisti, scienziati, grandi attori figli dell’immigrazione.
Non hanno fatto grande solo il paese in cui vivono o sono vissuti: hanno fatto grande la cultura, la scienza, la musica, il cinema di tutto il mondo. E l’hanno fatto perché non si sono chiusi o non si sono fatti rinchiudere dentro confini. Il presidente dell’Argentina ha un cognome italiano, così come il sindaco di New York. E camminando per le strade di tante città d’Europa, dell’Australia o del Canada, se si sente parlare italiano non si tratta necessariamente di turisti – che, pure, hanno anche loro “attraversato il confine”.
Infine, a trasformare i confini in muri si perde il senso della realtà. Di com’è la vita vera. Vedo crescere confini artificiali, non semprevisibili ma di cilissimi da relativizzare o da attraversare. Confini nei cuori e nelle menti, confini tra comunità, confini di sangue e di confessione. Confini che fino a poco tempo fa non esistevano, che non hanno radici storiche ma che sono a volte il paravento dietro cui si nascondono giochi di potere o di banale denaro.
In Siria e in tutto il Medio Oriente, per secoli, sunniti e sciiti, alauiti, arabi e curdi, ebrei e cristiani hanno convissuto nelle stesse città, negli stessi quartieri. Nei Balcani i matrimoni misti, che un tempo erano la norma, sono diventati una rarità.
Non è una tendenza inarrestabile, un destino scritto. La storia non procede per inerzia, sono le donne e gli uomini a farla. Mitrovica, in Kosovo, è stata per decenni una città divisa da un fiume e dalla guerra. Durante la primavera scorsa siamo riusciti, dopo un lungo negoziato, a far riaprire il ponte che unisce le due sponde dell’Ibar – e le due comunità, kosovara e serba. In tal modo quel confine è diventato, nella realtà e nel simbolo, un ponte. Sono serviti coraggio, visione, capacità di immaginare la riconciliazione, una vita diversa: lasciarsi alle spalle il dolore del passato per non consentire all’odio di avvelenare anche il presente. Ci vuole a volte molto più coraggio per fare la pace, che la guerra.
Lo stesso coraggio e la stessa visione li ho sentiti tante volte nelle parole dei siriani che ho incontrato in questi anni di conflitto: un desiderio fortissimo di normalità, di pace, di riconciliazione, di pluralità e diversità, di ricostruire nel tempo uno spazio comune senza barriere etniche, politiche e confessionali. Evitando che il confine separi – al contrario, consentendogli di congiungere, unire. Il confine non è il luogo dove finisce ciò che è nostro e cominciano i pericoli. È dove inizia l’altro, che sia un essere umano o un paesaggio nuovo, dove iniziano opportunità, futuro. Non è un argine, ma una porta.