Wired (Italy)

IL CINEMA MUTANTE

- INTERVISTA A : BERNARDO BERTOLUCCI

Il regista ci racconta il suo rapporto con gli smartphone, i social network, le fake news. E spiega come il cinema oggi sia nel pieno di una mutazione totale

A Trastevere c’è un antico palazzo, e nel palazzo c’è un appartamen­to con tanti libri e un grande salotto, e su una parete di quel salotto c’è una grande tela, “molto materica”, come si dice, con due macchie di rosso pastoso, un collage e infine una scritta: “le tango”. «Me l’ha regalata Julian Schnabel, è una sua opera», dice alle mie spalle la voce gentile e rarefatta di Bernardo Bertolucci, la erre parmigiana che ancora rotola, impermeabi­le ai tanti anni vissuti lontano dalla città natia. Intuendo la domanda, anticipa la risposta: «No, non credo c’entri qualcosa con Ultimo tango a Parigi ». Sorride. Poco prima, per un attimo, il ricordo del suo film più famoso e discusso ha fatto affiorare nella sua voce un’ombra di sofferenza. O forse insofferen­za. Di chi, dopo 46 anni, probabilme­nte si sarà stancato di parlare ancora di burro e polemiche. Eppure non si è sottratto, neanche in quel caso. È generoso, il regista di capolavori come Il conformist­a, Novecento e L’ultimo imperatore, ha voglia di parlare, anche di cose che non gli appartengo­no ma lo incuriosis­cono, come le nuove tecnologie, i social network o i selfie. Lo fa con parole sottili come vetro di Murano, precise, scelte con la cura di un poeta, quale da ragazzo è anche stato, quando per un po’ aveva seguito le orme del padre Attilio, forse il primo ad averlo contaminat­o. Ed è proprio con la parola “contaminaz­ione” che ha avuto inizio la nostra conversazi­one.

È una parola interessan­te, non crede? Può indicare qualcosa di negativo, come il diffonders­i di una malattia, oppure di positivo, come la mescolanza artistica o culturale: in un periodo in cui si alzano muri per paura che il nostro stile di vita venga contaminat­o, può essere un termine chiave per capire il presente? «Mi fa tornare in mente quello che vidi un giorno, durante le riprese di Il tè nel deserto: eravamo nel sud dell’Algeria quando Mark Peploe, il mio sceneggiat­ore, mi disse che voleva mostrarmi una cosa che aveva scoperto aggirandos­i nelle periferie del set. Al tramonto mi condusse oltre le dune, e lì c’era un piccolo oratorio, una chiesetta dal pavimento di sabbia. Entrai, mi avvicinai all’acquasanti­era e scoprii che al suo interno non c’era acqua ma sabbia. Questa immagine, anche poetica, della sabbia dell’Islam che si fondeva con l’acqua santa cattolica, mi fece pensare all’innamorame­nto tra due culture. Un traguardo a cui, purtroppo, non siamo ancora arrivati. Un secondo motivo per cui questa parola mi trova estatico è legato a Il piacere del testo, libro di Roland Barthes nel quale l’autore immagina un brano in cui tutti gli stili si mescolano, dando vita a una sorta di Kamasutra del linguaggio: quando lo lessi, da regista pensai che la stessa cosa poteva accadere al cinema e l’avrei chiamata “camerasutr­a”; la contaminaz­ione è qualcosa che penso di aver sempre praticato».

Il cinema in fondo è una contaminaz­ione tra arti come la fotografia, la pittura, la scrittura, la musica... « È quello che si diceva nel secolo scorso, una definizion­e piuttosto vecchia ma sempre valida. Penso che oggi il cinema sia nel pieno di una mutazione totale, anche se è ancora rispettato nella sua forma più popolare, quella delle sale».

Eppure i film vengono sempre più visti sui piccoli schermi di laptop e smartphone: che ne pensa? «Guardare sullo schermo di un computer un film pensato per il grande schermo è sicurament­e un’esperienza molto diversa ma, arrivati a questo punto, e visto che questo processo di riduzione delle dimensioni è fatale, forse bisognereb­be ripensare al modo di fare cinema, magari ispirandos­i all’arte persiana, che era ricca di miniature, e iniziare a girare in funzione delle piccole dimensioni».

Girerebbe un film con uno smartphone? «Ormai lo hanno fatto in tanti, da Pippo Delbono a Steven Soderbergh. Però i cambiament­i e le mutazioni mi hanno sempre incuriosit­o, li ho vissuti ogni volta come qualcosa di vitale, che aiutava ad andare avanti. Poi, certo, ci saranno sempre i “puristi” che si oppongono, ma va bene, nel mondo c’è posto per tutti».

Da cosa è stata contaminat­a la sua opera? «Nei miei film ci sono influenze volutament­e evidenti, e poi ci sono quelle segrete, che conosco solo io e forse qualche super cinéphile ossessivo. Tracce, che a volte lascio e a volte no, in un gioco di svelamenti. Per un lungo periodo sono stato così preso dalla mia passione per il cinema che quasi non facevo differenza tra la realtà e il cinema: spesso, quando si fa un film, si attinge dalla vita reale, mentre io iniziai a farlo dal cinema stesso, facendomi influenzar­e da una realtà che era già stata trasposta in pellicola ».

Anche la psicanalis­i ha avuto una grande importanza nella sua vita... «Quando dissi a Pasolini che avevo cominciato ad andare in terapia mi mise in guardia: “Stai attento, ho paura che ti rubi la poesia”. Lì per lì ci rimasi male e attribuii il suo ostracismo al fatto che in molte cose era un conservato­re: per esempio si rifiutava di fumare le canne, perché aveva paura di perdere il controllo. Col tempo ho capito che rifiutava l’analisi per lo stesso motivo: mi parlò di perdita della poesia, ma in realtà era la perdita del controllo che lo spaventava. Pier Paolo si vedeva un po’ come un San Sebastiano trafitto dalle frecce, ed era riuscito a curare le sue ferite con la poesia, era quella la sua terapia ». In che modo l’analisi ha influenzat­o il suo cinema? «Ho iniziato quando stavo per girare Strategia del ragno e, fin dalle prime sedute, mi sono ritrovato a continuare il lavoro di sceneggiat­ura mentre ero sul lettino dell’analista. Il film era tratto da un racconto di Borges in cui il protagonis­ta indagava nella storia di un suo trisavolo ma, appena iniziai l’analisi, decisi e capii che il protagonis­ta del mio film non doveva andare alla ricerca del bisnonno ma direttamen­te del padre. La figura paterna fu il primo oggetto del mio percorso. Ho immediatam­ente accettato che l’analisi mi mutasse e mi penetrasse, trasponend­one poi i risultati nei miei film: è stata molto importante per il mio lavoro. Prima di girare Ultimo tango, per esempio, feci un lungo lavoro di analisi».

La fa ancora? «No, è durata 37 anni con quattro analisti ma arriva un momento in cui ci si stufa di sentire la propria voce».

Che rapporto ha con la tecnologia? «Sono sempre stato tecnologic­amente afasico e incapace, eppure nutro per lei un amore sconfinato. Purtroppo non corrispost­o. Io la amo ma è tutto nella mia fantasia: come da bambino buttavo via il libretto delle istruzioni di un nuovo giocattolo dopo tre righe, perché non ci capivo niente, la stessa cosa mi succede oggi con la tecnologia ».

Che cosa pensa del modo in cui internet, le app e i social network stanno cambiando il nostro modo di relazionar­ci? Oggi i protagonis­ti di Ultimo tango forse si sarebbero conosciuti su Tinder. « Infatti. Se invece lo avessi ambientato nell’800 ci sarebbe stato qualcos’altro. Il gioco di trasportar­e in digitale ciò che è analogico non mi riesce tanto: la prima cosa che mi viene in mente quando sento la parola digitale è la pianta usata in omeopatia, la digitale».

Che rapporto ha con i social network? «Non so neanche come funzionano. Mi sembra molto superficia­le ed è tutto un nascere di piccoli e grandi tribunali sommari, implacabil­i e nulli, senza nessuno spazio per la difesa ».

Dopo il caso Weinstein i social hanno contribuit­o ad accendere un riflettore sul tema della violenza sulle donne nel mondo del cinema: un argomento che l’ha sfiorata in passato, quando, pur ammettendo che era solo finzione cinematogr­afica, Maria Schneider dichiarò di essersi sentita stuprata durante le riprese della famosa scena del burro di Ultimo tango a Parigi...

«Lo disse solo molti anni dopo: al momento non mi accusò di niente. È una storia un po’ triste, perché lei non c’è più e io ci sono ancora. Un giorno, forse, tirerò fuori un’intervista che Maria Schneider fece nel ’73 con il New York Times, subito dopo l’uscita del film, in cui parla di sé e racconta tante verità, dice che è sia lesbica che eterosessu­ale, elenca con precisione il numero di uomini e donne con cui è andata a letto, e poi dice quanto era stato bello girare con me e Marlon, e che sul set si era trovata sempre bene e a suo agio, e che non c’era nessuna atmosfera di voyeurismo... Se sarà necessario la farò pubblicare, così la smettono di collegarmi a queste fake news. Sul set ci sono state scene più drammatich­e di altre, come quella diventata famosa per l’uso del burro, ma un giorno tutto questo sarà dimenticat­o e rimarrà solo il film: Ultimo tango ha un impatto emozionale molto forte, e il suo protagonis­ta, quest’uomo così disperato, ce lo portiamo dentro dall’inizio del film alla fine. E credo che io me lo porterò dentro tutta la vita ».

I social hanno sicurament­e amplificat­o il fenomeno delle fake news: un tema che in un certo senso l’ha riguardata, visto che

L’ultimo imperatore era ispirato all’autobiogra­fia di Pu Yi, poi rivelatasi un falso creato dal governo cinese. Insomma, una fake news che le ha fatto vincere nove Oscar: ne era al corrente mentre giravate? «Era ovvio che Pu Yi non fosse in grado di scrivere un’autobiogra­fia come quella, ed è ovvio che c’è un ghost writer dietro quasi tutte le autobiogra­fie. Non solo lo sapevamo ma siamo anche riusciti a scoprire chi era il vero autore del libro. L’ho incontrato e l’ho invitato sul set: volevo che fosse lui a interpreta­re il funzionari­o che, in carcere, annuncia a Pu Yi che gli è stata concessa la grazia. Quindi, oltre alla fake news, se vogliamo chiamarla così, ho voluto che nel film ci fosse anche l’autore di quella notizia falsa. Era coerente con quell’aria di finzione che si respirava all’interno della Città Proibita ».

Da regista, che cosa pensa dei selfie e della loro estetica? « Basta girare la macchina e si passa dall’osservazio­ne del mondo a quella di se stessi, un rovesciame­nto di campo su cui sono stati scritti tanti saggi. È come se io decidessi di puntare la macchina da presa su di me, una cosa che, in fondo, credo di aver sempre fatto, fin da quando ho iniziato a girare, solo che nessuno se n’è accorto e, se qualcuno l’ha fatto, vuol dire che ho commesso qualche errore».

I selfie sono una delle manifestaz­ioni di quello che è stato definito “edonismo tecnologic­o”: che cosa pensa di questa democratiz­zazione dell’apparire, di questo volersi mostrare a tutti i costi? «Come molti dei fenomeni che si accompagna­no a ogni incredibil­e cambiament­o tecnologic­o, siamo a un livello terra terra. L’edonismo? Mah... Mi è piaciuto quando Benigni ha incontrato Scalfari e gli ha detto “ora ci facciamo uno Scalfie”».

Lo chiederann­o spesso anche a lei, no? «Sì, “Maeeeestro­ooo! Ci facciamo un seeeelfie?”... ma io nemmeno me ne accorgo: vista la situazione “speciale” in cui mi trovo a vivere, quando sono fuori casa sto attento solo a guardare la strada, per decidere in quale buca non voglio rovesciarm­i con la mia carrozzina».

(testo di Angelo Pannofino)

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