LA GUERRA DEI BIT
Nella base di Fort Gordon, in Georgia, i militari statunitensi addestrano un nuovo tipo di soldato, che non va al fronte ma usa la mente come arma. Fa parte delle cyber-truppe che ogni giorno fanno la guerra attraverso le reti informatiche ai terroristi, agli stati canaglia e agli hacker di tutto il mondo
SSono le parabole satellitari a marcare l’ingresso principale di Fort Gordon, gusci d’uovo bianchi che guardano in direzione della luna. È un santuario sobrio, questo, se confrontato con altri della stessa specie. Molte basi militari piazzano al loro ingresso macchine che esprimono soprattutto potenza – carri armati, elicotteri o pezzi d’artiglieria pesante – invece le parabole di Fort Gordon sono eleganti. Discrete. Tranquille.
Oltre i cancelli la situazione è più o meno la stessa. Fort Gordon è adagiato dentro a un morbido bacino della Georgia, patria classica del corpo dell’Us Army Signal. Il Signal è attivo sin dalla guerra civile ed è stato a lungo responsabile delle comunicazioni militari: bandiere e fiaccole nei tempi lontani, radio e cavi nel passato più prossimo. Di recente, ha dovuto condividere parte dei propri spazi con una nuova branca: il cyber. Trovate un veterano del Signal, magari col naso affondato nella tazza di un bar del buio lungofiume di Augusta, e vi parlerà senza mezze misure di questo nuovo corpo. Con un pizzico d’invidia, mista ad affetto fraterno, vi dirà: «Maledetti palloni gonfiati».
Forse c’è qualcosa di vero in tutto questo. Forse è solo una questione di burocrazia territoriale, ma ciò che sta succedendo al quartier generale del nuovo cyber-corpo dell’esercito statunitense segna un cambiamento per Fort Gordon. E anche per la comunità che lo circonda, con i leader locali che sperano di trasformare Augusta e le città limitrofe in un hub nazionale della cyber-sicurezza. D’altronde, ciò che sta succedendo in questo ambito potrebbe cambiare l’idea stessa di guerra. E i soldati che se ne occupano vanno in missione senza fucili. Le loro armi sono le menti, dicono. Una battuta? Forse. Una verità? Senza dubbio. In qualunque momento a Fort
Gordon istruttori in uniforme color cachi addestrano soldati a diversi stadi della loro carriera: reclute nuove fiammanti, sottufficiali dagli occhi di ghiaccio, tenenti irreprensibili, capitani intrattabili. Sono corsi fatti su misura per gradi diversi, della durata di mesi, su come condurre una guerra attraverso le reti informatiche in modo sia offensivo (disattivare le reti nemiche) sia difensivo (cercare d’individuare le vulnerabilità nei sistemi militari statunitensi prima che lo faccia un nemico). Nel frattempo, da qualche altra parte nella base, circa 900 cyber-operatori che hanno già superato l’addestramento – il 70 per cento dei 1300 cyber-soldati in servizio attivo nell’esercito – sta facendo le stesse cose nella realtà, per quanto la si possa definire realtà.
Letteratura e cinema ci hanno tramandato la storia modello del ragazzo senz’arte né parte che diventa un soldato. O dei giovanotti spavaldi e infallibili che crescono vigorosi dentro le cabine dei caccia. Ma chi entra nell’esercito per hackerare le reti informatiche? Che cosa significa questo nuovo tipo di guerra per i militari, e come cambia il loro addestramento? E come si riflette, alla fine, su tutti noi?
Passato il cancello di Fort Gordon, supero l’Holiday Inn Express e il Signal Towers, l’edificio desolato che sembra costruito per l’orizzonte di Varsavia dopo la seconda guerra mondiale. Giro a sinistra a Domino’s Pizza, poi a destra all’altezza delle caserme piene dell’angoscia dei giovani soldati. Qui c’è una costruzione tozza in mattoni rossi. “Quartier generale”, recita il cartello. “Cyber-scuola dell’esercito degli Stati Uniti”. Al suo interno cela un laboratorio d’idee ambiziose e ospita i più ferventi cyber-apostoli dell’esercito. E qualche giovane che aspira a diventarlo. Se è abbastanza intelligente. Se è abbastanza creativo. Se è pronto per le esercitazioni fisiche prima dell’alba. Anche gli hacker dello zio Sam devono essere in forma perfetta. Alicia Torres ha altro da fare. A differenza di altri soldati, non ha dovuto accogliere questo giornalista in visita al campo. Poteva fare un milione di altre cose. Come programmare in linguaggio Python. Vent’anni, di Pennsauken, New Jersey, Torres ora si diverte a farlo nel tempo libero, anche se una parte di lei considera ancora la programmazione una roba da “nerd”.
Torres è comunque un soldato, e i soldati senza il necessario addestramento non possono circolare liberamente da soli per la cyber-scuola. È la sua compagna di battaglione Elizabeth Stokes ad aver ricevuto l’incarico di accogliere il giornalista in visita. Sono le uniche due donne soldato della classe e perciò sono legate tra loro da corde invisibili. Per questo anche Torres, alla fine, si trova di fronte a me. Quando le chiedo com’è arrivata nell’esercito, incrocia le braccia e corruga la fronte lanciando un’occhiata all’addetto alle relazioni esterne. Sulle prime è riluttante ma poi si apre. La sua storia sarebbe perfetta per uno spot di reclutamento.
Torres non arriva dalla programmazione informatica, il che è un’anomalia rispetto alla grande maggioranza dei suoi compagni di scuola. Dopo il liceo ha macinato con disinvoltura un test attitudinale dell’esercito (a cui devono sottoporsi tutte le nuove reclute) e il punteggio ottenuto l’ha dichiarata idonea per il cyber-corpo. « Anche il mio reclutatore non sapeva bene che cosa fosse un 17 Charlie», spiega, utilizzando il codice militare di specializzazione professionale con cui viene indicato il cyber-soldato. «Mi disse che comunque valeva come un bonus per l’arruolamento». Adesso Torres sta crescendo, anche se l’idea di diventare una nerd continua a preoccuparla. Discute amichevolmente con Stokes: Linux contro Windows, le cyber-operazioni offensive rispetto a quelle difensive. Non è sicura che i suoi compagni del liceo sarebbero in grado di riconoscerla.
Stokes è arrivata alle cyber-operazioni in modo più diretto. Anche il suo reclutatore ignorava che cosa fosse un 17 Charlie, ma lei lo sapeva. Mentre Torres mostra ancora un filo di malinconia adolescenziale, Stokes è il pragmatismo fatto persona. Ventisette anni, di Pensacola, Florida, ha ricevuto il suo primo computer a vent’anni. Alcuni corsi universitari sulla cyber-sicurezza e la programmazione hanno stimolato la sua curiosità e così si è arruolata. «Per imparare dai migliori», come dice lei.
Stokes racconta che gli amici e la famiglia non si capacitavano del suo desiderio di entrare nell’esercito. Pensacola, in fin dei conti, è una città della Marina. Ma Stokes aveva altri programmi. C’è una cosa che tanti cyber-soldati hanno in comune: la voglia di dimostrare di poter eccellere all’interno di un’organizzazione. È un atteggiamento anomalo se paragonato alla più ampia cultura militare. La cosa peggiore che potete fare nella terra delle reclute è distinguervi nel mare calmo del mimetismo. Ma anche solo per accedere alla cyber-scuola, i soldati devono essere speciali. E devono essere abbastanza speciali da saperlo.
Come dicono gli studenti, la vita quotidiana alla cyber-scuola appare… noiosa. Alla lezione cui assisto un gruppo di capitani tiene una presentazione su come utilizzare una chiavetta usb trasformata in arma, accompagnandola con una dimostrazione in cui la inseriscono in un computer portatile all’apparenza normale. Da
qualche parte, tra le luci intermittenti e le vibrazioni, una scarica elettrica distrugge i componenti interni del computer. Più tardi, assisto a un’esercitazione di tunneling, durante la quale i dati vengono trasmessi intorno al globo terrestre attraverso una serie di masked entities, ognuna delle quali contribuisce a oscurare la sorgente della trasmissione (o meglio, a coprire le tracce digitali lasciate).
Durante il tempo che passiamo insieme, Stokes mi confida di avere cominciato a sognare in codice. Spesso si tratta di un sogno ben preciso: ha sviluppato un gioco che aiuta le persone colpite da danni cerebrali. Le aiuta a ricordare ciò che la loro mente ha perduto. Nel sogno ha pianificato ogni cosa, ma quando si sveglia non si ricorda i dettagli e cerca di scriverli in fretta. Con Stokes e Torres, le uniche donne della loro classe, la questione della diversità di genere s’impone. Torres parla di una struttura di supporto nella cyber-terra, donne che aiutano le donne e si tengono d’occhio a vicenda. Oltre i cancelli di Fort Gordon, la generale di brigata Jennifer Buckner è vista come un astro nascente: in effetti a febbraio il Pentagono l’ha promossa a una nuova posizione a Washington Dc, dove lavora direttamente alla cyber-politica dell’esercito.
Chiedo alle due reclute che cosa vogliono fare dopo la carriera militare, quando e se sarà. I piani di Stokes non si discostano poi molto da quelli che le fanno visita nel sonno. « Andare nei paesi in via di sviluppo a insegnare coding e programmazione», dice. Torres pensa invece di avvicinarsi a casa. Spera di poter lavorare un giorno allo sviluppo software in Apple, un obiettivo al quale si è aggrappata durante tutte le fatiche dell’addestramento. Ma Cupertino può attendere. Il comandante della sua compagnia a Fort Gordon le ha consigliato di fare domanda a West Point per diventare ufficiale. « A volte le persone pensano al servizio militare come estrema risorsa, perlomeno da dove vengo io», dice Torres. «Ma io sto imparando che può essere una scelta anche per gente intelligente». Un’affermazione che davvero non sentirete mai nella terra delle reclute. L’orgoglio comunque è lo stesso. Così come la convinzione di fare la differenza, in meglio. Strizzate gli occhi abbastanza forte e io penso che potrete immaginare che quello che questi soldati stanno imparando potrebbe neutralizzare le capacità di difesa di una nazione in tempi e modi che per un’intera brigata di fanteria sarebbero impossibili.
Tra i soldati di fanteria girano barzellette sui soldati d’artiglieria che si tengono ben lontani dalla battaglia. I soldati d’artiglieria raccontano barzellette sui piloti. Quelli di supporto, nel gergo moderno chiamati fobbits, sono presi in giro da quasi tutti perché si occupano di attività più sicure (quantunque critiche) come la logistica e l’assistenza medica. Più un soldato è distante dal nemico, più risentimento nei suoi confronti coveranno quelli che si trovano più vicini all’azione. I cyber-soldati e i piloti dei droni sono l’ultimo anello di questa catena infinita. Creano scompiglio nelle reti e fanno piovere la morte dall’alto nella Guerra Infinita, combattendo cellule terroristiche nemiche e Stati-nazione più o meno nemici. Poi rientrano a casa e controllano i compiti d’algebra dei propri figli. Potranno trascorrere un’intera carriera in patria, senza mai mettere un piede in una zona di guerra, anche se sono perennemente in guerra.
In quale modo la cultura militare stia assorbendo questo fenomeno è ancora oggetto di studio. Nel 2013 l’allora segretario alla Difesa, Leon Panetta, annunciò il progetto di una Medaglia al merito (Distinguished warfare medal), come riconoscimento per gli “straordinari successi che hanno un diretto impatto sulle operazioni di combattimento, ma che non comportano atti di valore o rischi all’incolumità fisica che il combattere comporta”. Destinata di fatto ai piloti di droni e ai cyber-soldati. I gruppi dei veterani scatenarono un putiferio, in parte per l’ordine d’importanza assegnato alla medaglia: più alto della Medaglia di bronzo al valore, per intenderci. Due mesi dopo, la nuova medaglia è stata rottamata. Alla velocità della luce, considerati i tempi del Pentagono. Non si è ancora giunti a una definizione di che cosa s’intenda con il termine vera guerra: non molto tempo fa gli sniper, i cecchini, erano considerati codardi dai soldati di fanteria, per esempio. Oggi sono militari celebrati. Forse con il tempo anche i cyber-soldati e i piloti dei droni lo saranno. L’idea di un combattimento su un nuovo fronte nelle retrovie non è facile da digerire dopo millenni di battaglie lineari nei cieli.
Ed essendo buona parte del loro lavoro segreto, non possono raccontare molte delle attività che stanno svolgendo per difendere il paese. Iniettano malware nelle reti nemiche? Diffondono informazioni false, come si dice abbia fatto l’MI6 del Regno Unito con la “Operation Cupcake”, sostituendo le istruzioni per realizzare una bomba in una rivista online di Al Qaeda con ricette di torte? Tutte domande a cui, spiegano a Fort Gordon, non possono rispondere. Provo a capire come potrebbe svolgersi un potenziale combattimento nel futuro. Per esempio in Afghanistan. Ma mi rendo conto che per i miei interlocutori tutto è ipotetico. La guerra in Afghanistan, per questa generazione di soldati, c’è sempre stata. Uno di loro, il sottotenente Charles Arvey, mi dice
che l’11 settembre aveva sei anni e che gli Stati Uniti che conosce lui sono sempre stati in guerra. L’Afghanistan non finirà mai. È indefinito e amorfo, come lo sono i fondi pensione e l’idea di avere nipoti per i loro colleghi del mondo civile.
Si percepisce forza e fluidità insieme nei passi del warrant officer Marcus Edwards, le spalle che ruotano come trottole. I militari migliori imparano a muoversi in questo modo nell’arco di una carriera, quale che sia la loro arma. È un modo per esprimere sicurezza e incutere timore. E nel corpo dei cyber, Edwards è, appunto, uno dei migliori.
«Questa è l’unità di massima élite che l’esercito ha creato nel XXI secolo», spiega Edwards, che mi ha chiesto di cambiare il suo nome di battesimo (ma non il cognome) perché teme di poter essere attaccato in qualche modo online dai suoi nemici. Ha 33 anni e crede fermamente nell’attività cyber dell’esercito, della quale si è occupato sin dall’inizio. Divide il proprio tempo tra le missioni che gli vengono affidate e l’insegnamento. Non è un tipo emotivo – quindici anni in uniforme vincono qualsiasi emozione – ma gli passa una curiosa espressione sul volto quando gli chiedo un po’ di cose sul suo lavoro. «Le nostre competenze permettono ogni giorno di proteggere e attaccare nell’interesse del nostro paese», afferma. «Non potrei fare lo stesso da nessun’altra parte».
Come altri cyber-soldati di rango elevato, Edwards ha assolto anche ulteriori compiti nell’esercito. Si è arruolato come cable dog, installatore e manutentore di sistemi di rete, responsabile del funzionamento delle comunicazioni. Dopo due missioni in Iraq, è passato all’intelligence militare, per conto della quale ha prestato servizio alle Hawaii, insieme a guru dell’Nsa e consulenti governativi. Nel 2011 si è offerto volontario per un addestramento per entrare a far parte dell’allora nascente cyber-commando dell’esercito. Dei 125 che formavano quel gruppo di proto-cyber «solo cinque ce l’hanno fatta», ricorda Edwards, alludendo alla durezza della selezione. Nato a Hampton, in Virginia, riconosce all’esercito il merito di averlo plasmato nell’uomo che è oggi. Sua madre lavorava agli approvvigionamenti nella Marina e da sola doveva crescere quattro figli. I soldi a disposizione erano pochi. Edwards trovò la propria strada nella programmazione informatica a scuola ed è riconoscente al National Blue Ribbon Schools Program e al Virginia Air & Space Center per averlo aiutato a dare forma a quegli interessi.
I warrant officer (una categoria intermedia tra ufficiali e sottufficiali) assolvono a una funzione unica nelle unità militari: sono esperti di tecnologia che in qualche modo si trovano al di fuori della catena di comando tradizionale. Si tratta di una posizione invidiabile, che si conquista a fatica e comporta grandi responsabilità. Secondo il maggiore Ty Summers, direttore del Cyber Leader College: « Il corpo dei cyber è meno gerarchico degli altri… Il lavoro lo fa chi può. Militari di leva, warrant, ufficiali: fanno tutti la stessa cosa». (Summers, come Edwards, ha chiesto che cambiassi il suo nome di battesimo ma non il cognome, con le stesse ragioni). Chiunque sia il migliore per risolvere un problema particolare, lo risolve.
Questo genere di logica mette parecchia pressione addosso a quelli come Edwards, che in genere hanno più esperienza di tutti nella battaglia digitale. Insisto perché condivida qualcuna delle tattiche e delle tecniche che usa sul campo e che insegna come istruttore. Come tutta risposta, lui mi confida di essersi fidanzato da poco e che alla sua compagna, quando è laconico rispetto alle sue domande sul lavoro, spiega che «non le sta tenendo dei segreti, ma li sta salvaguardando». È così che dev’essere, dice. «Sente qualcosa nei notiziari e mi chiede se è vero». Edwards fa spallucce. «Non posso dirle più di quanto dica anche a te. A volte non so neppure io come stanno davvero le cose». «Ma altre volte sì», suggerisco. Fa di nuovo spallucce. Dopo il congedo dall’esercito, dice Edwards, probabilmente lavorerà per il governo come civile o entrerà nel settore privato. Replicare nel mondo civile le emozioni e gli obiettivi quotidiani della battaglia digitale sarà difficile. Echi di questa esperienza potrebbe offrirli qualcosa tipo la Nsa. Di certo non la Silicon Valley.
Chiedo a Edwards che cosa direbbe a chi volesse entrare nelle file dei cyber. Rifà la stessa espressione curiosa di prima. Non so ancora precisamente che cosa faccia, ma è più che evidente che vive per quello. «Qui puoi demolire il lavoro di qualcun altro». Sorride tra sé e sé, forse ricordando un’operazione di hackeraggio andata a buon fine. Poi si ricorda che sta parlando con un giornalista. «O anche costruire sul lavoro di qualcun altro. Vuoi essere il migliore in questo campo? Allora devi lavorare per noi». Todd Boudreau – vice comandante della cyber-scuola e warrant officer capo in pensione – paragona quanto sta succedendo al cyber agli albori delle forze
speciali. L’analogia non riguarda i tipi di missione, ma piuttosto il senso d’indipendenza dal Grande Esercito e lo spirito di corpo che li contraddistingue. Non sono del tutto certo che abbia ragione, e i Berretti Verdi che conosco avrebbero qualcosa da obiettare, ma ciò che pensiamo noi non conta. «Si farà sempre più dura», dice Boudreau a proposito della guerra cibernetica, ricordandomi un passaggio di How Everything Became War and the Military Became Everything, un libro del 2016 dell’ex funzionaria del Pentagono Rosa Brooks: «Le guerre cibernetiche si giocheranno probabilmente sul terreno di informazione e controllo: chi avrà accesso a informazioni sensibili sanitarie, personali e finanziarie? Chi sarà in grado di controllare la macchina della vita quotidiana, i server a cui si affidano il Pentagono e la Borsa di New York, i computer che impediscono ai freni della nostra automobile di attivarsi nel momento sbagliato o il software che gestisce i nostri computer di casa?».
Chi sarà in grado di controllare la macchina della vita quotidiana: un’idea terrificante. Se mai esistesse una versione cyber del Credo delle forze speciali – o anche solo un manifesto per il reclutamento – quest’espressione dovrebbe starci di diritto. Nessuno alla cyber-scuola riconosce la possibilità di una fuga di cervelli verso la Silicon Valley o le agenzie governative, ma la questione è stata sollevata: uno studio Rand del 2017, intitolato Retaining the Army’s Cyber Expertise, ha rilevato che i soldati che si qualificano per diventare cyber-operatori «hanno maggiori probabilità degli altri di restare nell’esercito per almeno 72 mesi; tuttavia, sembra anche che abbiano in qualche modo meno probabilità di riarruolarsi».
Iproblemi relativi al mantenimento in servizio segnalati dall’Nsa, associati alle più ampie carenze nel reclutamento per la cyber-sicurezza, danno l’idea che non sia facile tenere in uniforme uomini e donne qualificate. Le gratifiche economiche non possono fare molto e non tutti condivideranno la dedizione alle missioni dimostrata da Edwards. La cosa sembra andare bene a Boudreau: «Il nostro obiettivo è capire come incentivare quelli che vogliamo tenere con noi. La verità è che non vogliamo tenere tutti». Tuttavia nessuno è più consapevole di Boudreau che l’esercito cibernetico continuerà a svilupparsi e dunque avrà bisogno di menti fresche e capaci. Fort Gordon sta crescendo velocemente. Se i piani attuali saranno rispettati, entro il 2028 il cyber-campus si espanderà, con un investimento previsto intorno ai 900 milioni di dollari.
Mentre lascio definitivamente Fort Gordon, incrocio di nuovo il Signal Towers, spoglio e isolato. È davvero una torre con un abbozzo di edificio al suo fianco. La leggenda vuole che l’esercito sia rimasto senza denaro prima di ultimare la seconda struttura verticale. Tirato su durante gli anni Sessanta, è una reliquia di un altro esercito, di un altro paese. Di quando le guerre erano circoscritte. Di quando la distanza tra soldati e cittadini non era così ampia. Di quando i soldati vedevano il nemico e il nemico vedeva loro. E qui mi fermo per non sembrare nostalgico.
Eppure non posso non chiedermi: si perde qualcosa risparmiando ai soldati di vedere con i propri occhi le conseguenze delle loro azioni? Com’è possibile che non ve ne siano? La guerra non è gloria. Nemmeno quando la guerra è solo, quanto solo non importa, violenza sancita dallo Stato. Ci abbiamo guadagnato? Questa è una domanda ancora più complessa. Anche più oscura.