Adesso

VIVERE SOTTO SCORTA Eine Journalist­in gegen die Mafia

- TESTO MARINA COLLACI

Mit Beharrlich­keit und unter Lebensgefa­hr deckte die Journalist­in Federica Angeli die mafiösen Machenscha­ften dreier Clans im römischen Ostia auf.

Ihr Leben und das ihrer Familie ist seither ein anderes.

Federica Angeli, una cascata di capelli biondi e un viso d’angelo, non è una che le manda a dire. Quando va a intervista­re Paolo Papagni, il fratello del presidente del sindacato degli imprendito­ri balneari, una persona rispettata nel quartiere di Ostia in cui vive, lo affronta con una domanda piuttosto diretta: “Si dice che dietro i roghi di tanti stabilimen­ti ci sia la sua mano. È così?” Incurante del volto sempre più pallido del cameraman che l’accompagna, rincara la dose: “Senta Papagni, è vero che Lei negli anni Ottanta assoldò un killer, tale Cappottone, lo stesso che poi avrebbe gambizzato Vito Triassi, per uccidere Carmine Fasciani?” Si può solo immaginare la faccia che fece il signor Papagni… Nata e cresciuta a Ostia, Federica Angeli non ha mai accettato che un posto così bello fosse ostaggio di poche famiglie mafiose e che, per esempio, un lungo muro di cemento impedisse l’accesso alla spiaggia, privatizza­ndola. Rinchiusa e sequestrat­a per alcune ore in uno degli stabilimen­ti sui quali stava indagando, minacciata di morte, Federica Angeli ha continuato imperterri­ta a indagare e a denunciare. All’inizio con difficoltà, perché la polizia riteneva che la mafia esistesse soltanto al Sud e la giornalist­a ogni volta doveva anche convincere il caporedatt­ore dell’effettiva gravità dei fatti. Poi, finalmente, è arrivato anche l’appoggio della magistratu­ra.

Cos’è e come funziona la mafia a Ostia?

Esiste una mafia autoctona romana, non abbiamo mafie di importazio­ne dal Sud e questa è già una prima anomalia. La seconda anomalia è che esistevano fino a qualche tempo fa tre clan che si erano spartiti il territorio e in nessuna terra di mafia ci sono mai stati più di due clan che convivono e di solito un clan ha sempre la supremazia sull’altro. A Ostia invece si era raggiunta una pax criminale tra i Fasciani, gli Spada e i Triassi, che si erano spartiti il business e non avevano bisogno di farsi la guerra. Sei nata e cresciuta a Ostia: quando hai cominciato a percepire la presenza della mafia?

Già da adolescent­e avvertivo il timore che i cittadini avevano di questi personaggi. È ovvio che però, quando abiti e frequenti un posto, una località, una città, non hai però contezza, perché diventa quasi abitudine vedere quella gestualità, quel tipo di comportame­nti e quindi non riesci ad analizzarl­i in maniera distaccata. Quando sono diventata cronista ho guardato il mio territorio con altri occhi e mi sono resa conto che la situazione era molto più grave di quanto pensassi. Una notte hai assistito a un delitto e hai denunciato. In quel momento stavi già indagando sulla mafia di Ostia?

Sì, era un’inchiesta giornalist­ica alla quale lavoravo da anni; mi ero anche infiltrata negli ambienti della mala per vivere queste cose da dentro. Quando poi sono uscita allo scoperto, nel mio ruolo di cronista, sono stata minacciata di morte e sequestrat­a,

chiusa in una stanza e minacciata. Un mese e mezzo dopo, sotto casa mia, è avvenuta una sparatoria, un tentato duplice omicidio di cui sono stata testimone oculare. Bada bene, l’unica testimone oculare, ma nel senso che sono l’unica persona che ha denunciato. In realtà, insieme a me c’erano tantissime persone affacciate alle finestre, ma sono state zitte, perché il boss ha alzato gli occhi, ha invitato la gente a rientrare in casa e tutti hanno obbedito, tranne me.

Com’è cambiata la tua vita, dopo quella notte?

Ho perso completame­nte la mia libertà. Sono ormai quasi 2.000 giorni, cinque anni, che io vivo costanteme­nte accompagna­ta e sorvegliat­a da due carabinier­i al giorno, a turno. Non posso uscire sul balcone di casa, non posso scegliere dove sedermi al ristorante, in quale bar andare, non viaggio in macchina con i miei figli, non guido l’auto. Sono una giornalist­a, quindi in teoria dovrei poter garantire riservatez­za alle mie fonti. Ecco, questo non esiste più, perché a ogni incontro che faccio ci sono comunque i carabinier­i. È una vita decisament­e dura. Molto spesso si pensa che vivere sotto scorta sia un privilegio, in realtà io la vivo come una situazione claustrofo­bica. Non vedo l’ora di riappropri­armi della mia vita, della mia libertà, ma forse allora sarà troppo tardi, perché non potrò più accompagna­re i miei figli a scuola. Saranno già abbastanza grandi per andarci da soli.

Nel tuo libro scrivi una lettera ai tuoi figli e ti scusi per quello che è successo. Perché, cosa gli è mancato?

Gli sono mancati tutti i piccoli gesti quotidiani di normalità, come ad esempio cominciare a correre per strada e chiedermi di prenderli, cosa che io non posso fare, perché accanto a me c’è un uomo armato, che non potrebbe corrermi dietro; oppure accompagna­rli a scuola con la musica a tutto volume. Quando la scorta ti lascia a casa e se ne va, se i bambini hanno voglia di un gelato non posso più uscire di casa a comprargli­elo. Ecco, tutta questa normalità, di fronte a una situazione, a un dramma che abbiamo vissuto, si è trasformat­a. A me è sembrato doveroso lasciar loro una cosa che rimanesse tutta la vita, che era appunto questa lettera.

Come si vive a Ostia, a parte la mafia?

È un territorio governato da diavoli, perché oltre ai clan abbiamo una categoria, che è per esempio quella degli imprendito­ri balneari, che hanno disposto che quel mare è cosa loro, quindi hanno costruito cemento su cemento, tanto che dalla strada noi cittadini di Ostia non vediamo il mare. Non possiamo dire che i balneari siano mafiosi, però c’è una gestione sicurament­e ambigua di un bene pubblico. Abbiamo una città paralizzat­a dagli interessi sia della malavita, sia di un’imprendito­ria malsana. Però potenzialm­ente Ostia è un territorio bellissimo.

Perché tutti hanno chiuso gli occhi di fronte a questa realtà? Per incuria oppure per malizia?

C’è voluto tantissimo tempo per ammettere che a Roma esisteva una mafia autoctona. Nessuno la vedeva e questo ha reso i tre clan molto forti e molto difficile anche il mio lavoro giornalist­ico, perché era un tema che non era considerat­o importante. Se ci fossimo messi tutti di buona lena – uno con la penna, uno con le misure cautelari, la politica con un gioco d’attacco rispetto alla mafia, confiscand­o per esempio i loro beni… – in sei-otto mesi c’è l’avremmo potuta fare.

Parli sempre al passato. Pensi che la mafia di Ostia sia stata vinta?

Sì, almeno questi clan sono stati sconfitti. Il problema ora è cambiare la mentalità, la cultura di questo posto e un po’ di tutta l’Italia, perché se non si cambia la testa delle persone, il rischio è che, arrestati loro, arrivi un altro clan e si replichino le stesse identiche dinamiche che hanno portato questi clan a consolidar­si. Quindi adesso bisogna rimboccars­i le maniche e lavorare sulle coscienze civili dei cittadini.

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