STILE LIBERO
IL MARMO DI CARRARA
Die Marmorbrüche von Carrara: von Meisterwerken zur Umweltsünde.
Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo”, si legge nelle Vite dei Cesari dell’autore latino Svetonio. A parlare è l’imperatore Augusto, che fece costruire o rivestire di prezioso marmo gli edifici di Roma, trasformandola in una città risplendente di luce e degna capitale dell’Impero. Quel materiale straordinario proveniva da una piccola catena montuosa che si allunga tra il fiume Magra e il Serchio, in quella zona d’Italia dove la Liguria e la Toscana quasi si confondono. A partire dal XIX secolo, queste montagne affacciate sul mare vengono chiamate “Alpi” per le larghe chiazze di marmo bianco che le rendono simili alle Dolomiti coperte di neve. Viste da vicino, svelano un paesaggio a tratti fantastico e irreale, molto difficile da descrivere. È un altro mondo, un altro pianeta fatto di pareti levigate e candide, dirupi, vie scoscese, strettissime e tortuose, anfiteatri di marmo scavati nella montagna, creste rocciose da cui discendono ciclopici e bianchissimi gradini. Il sommo Dante le chiamava Panie, ma sono note a tutti come Apuane, dal nome dei Liguri Apuani, una popolazione che costituiva una vera spina nel fianco della potente Roma, tanto da costringerla a fondare un avamposto a est della foce del Magra, destinato a diventare uno dei porti più importanti della Roma repubblicana: Luni. Da qui partivano le navi con il prezioso carico di marmo, che all’epoca era ancora detto marmor Lunense, destinato ai templi e ai palazzi della Capitale.
Oggi, di quell’antica città romana rimane solo qualche resto, che si può ammirare nell’area archeologica di Luni (in provincia della Spezia). Blocchi e lastre di pregiatissimo marmo vengono inviati in tutto il mondo via terra (per ferrovia, dalla stazione di Avenza, o su enormi camion), oppure prendono il mare dal porto di Marina di Carrara. Dal X secolo il centro dell’industria marmifera è infatti Carrara, concessa in feudo dall’imperatore Ottone I al vescovo di Luni. Da qui il nome del marmo più famoso del mondo.
Fin dall’antichità, estrarre il marmo è un lavoro non solo pesante, ma anche pericolosissimo. All’inizio si usavano solo semplici mazze e scalpelli, il taglio seguiva il più possibile
le fratture naturali della roccia e se ne ricavavano blocchi di piccole dimensioni, in modo da agevolare il trasporto. La tecnica rimase immutata per secoli e ancora nel Rinascimento, quando il marmo bianco di Carrara era il materiale prediletto dai grandi architetti e dai grandi artisti, nelle cave come quella del Polvaccio, ancora ferveva il lavoro degli scalpellini, che spesso si trovavano al fianco di personaggi a dir poco speciali. Uno di questi era Michelangelo Buonarroti (1475-1564), che amava scegliere personalmente i blocchi da cui “estrarre” i suoi capolavori immortali, come la Pietà (1497-1499), o la Tomba di Giulio II (1505-1545). Oggi quella cava porta il suo nome. Michelangelo riporta nei suoi diari episodi avvenuti al cantiere, come quando vide morire un operaio schiacciato da un blocco. Già, perché in cava si rischia la vita, oggi come allora. Nonostante il miglioramento delle tecniche di estrazione e le rigidissime misure di sicurezza, gli incidenti mortali sono ancora tanti, troppi: sei solo negli ultimi tre anni. Senza contare le patologie legate alla polvere di marmo respirata dai cavatori, come la silicosi. È questo il lato oscuro, l’altra faccia della medaglia. Da una parte la meraviglia di un materiale conosciuto e apprezzato da sempre in tutto il mondo, un’industria che, ancora oggi, dà lavoro a 13.000 addetti per un giro d’affari da un miliardo di euro; dall’altra gli incidenti e una modalità di produzione con un impatto ambientale fortissimo. Da qui
la battaglia che si trascina da anni tra i proprietari di cave e gli ambientalisti, che vorrebbero la chiusura delle cave o, almeno, un forte ridimensionamento dell’attività estrattiva (vedi pag. 27). Nel XVIII secolo, per estrarre il marmo si usava la dinamite. Un secolo dopo si trovò un sistema migliore, il filo elicoidale, fino ad arrivare al taglio di grandi blocchi con un filo diamantato che, a partire dagli anni Settanta, ha sostituito quello elicoidale. A questo modo di tagliare il marmo si deve l’attuale aspetto delle cave. L’ambivalenza che per molti costituisce parte del fascino di questo mondo si può cogliere appieno visitando le cave aperte al pubblico. È possibile effettuare visite guidate in diversi bacini, come quelli di Torano o di Colonnata (sì, proprio il paese da cui proviene il famoso lardo, vedi pag. 24), che non a caso matura in vasche di prezioso marmo di Carrara.