INTERVISTA
SAMANTHA CRISTOFORETTI
Aus dem All-Alltag einer RekordAstronautin.
Allegra, sportiva, Samantha Cristoforetti ha spo polato in televisione con i suoi “corsi di cucina dallo spazio”, durante i quali afferrava cosce di pollo che fluttuavano nell’aria per poi condirle con il curry. In realtà, eccelle anche nei mestieri tradizionalmente maschili e si è guadagnata l’appellativo di Astrosamantha facendo l’astronauta. C’è qualcosa di davvero marziano in questa giovane donna trentina, che si è laureata in Ingegneria aerospaziale a Monaco, parla tedesco, inglese, francese, russo e sta imparando il cinese, è ufficiale dell’Aeronautica militare e pilota di cacciabombardieri. Fra una cosa e l’altra, è diventata anche mamma di una bella bambina, ma continuerà a partire per lo spazio proprio come i suoi colleghi maschi. Per il momento è stata l’unica donna a rimanere nello spazio per ben 199 giorni, superando i 195 dell’americana Sunita Williams. La sua avventura è cominciata nel maggio del 2009, quando l’Agenzia spaziale europea la scelse insieme ad altre cinque persone fra 8.000 candidati.
Come si diventa astronauta?
Dopo la selezione, abbiamo fatto un percorso di addestramento di base al Centro europeo degli astronauti, che si trova a Colonia, in Germania. Lì abbiamo imparato le basi del mestiere e poi siamo stati assegnati alle missioni sulla stazione spaziale. Veniamo assegnati di solito due anni e mezzo prima della missione e iniziamo un percorso di addestramento molto lungo, molto intenso, che ci porta in giro per il mondo. Le attività di ricerca e l’addestramento hanno luogo a Colonia; per le passeggiate spaziali ci esercitiamo a Houston, negli Stati Uniti; in Russia ci addestriamo nell’uso dell’astronave.
Perché la formazione si svolge in paesi diversi?
La stazione spaziale internazionale si chiama così perché è il prodotto di una collaborazione ormai più che ventennale fra tante agenzie spaziali. I due partner principali sono gli Stati Uniti e la Russia, che sono i due pesi massimi, ma c’è un contributo molto importante canadese e giapponese. Poi c’è l’Europa, e mi piace ricordare che il contributo principale è senza dubbio quello dato dalla Germania, ma credo che il secondo o il terzo sia dell’Italia: due paesi che da sempre si impegnano nell’ambito dell’esplorazione umana dello spazio e che hanno una forte tradizione industriale. Molti dei moduli pressurizzati che compongono la stazione spaziale sono stati fabbricati a Torino, negli stabilimenti di Thales Alenia.
Quando è partita per la prima volta?
Il mio turno è arrivato nel 2014, cinque anni dopo la selezione come astronauta. Partii a novembre, a bordo del razzo Sojuz, da un luogo meraviglioso, leggendario, quasi fiabesco: il cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan. Eravamo in tre: io, un comandante russo e un collega americano. Siamo entrati in orbita in appena nove minuti, poi il programma di volo è fatto in modo
che dopo quattro giri attorno alla Terra si raggiunga la stazione spaziale internazionale, con un viaggio che dura circa sei ore.
Ci descrive cosa ha provato all’arrivo?
Dopo l’attracco e l’apertura dei portelli, è emozionante passare dal razzo Soyuz, che è una capsula piccolissima, dove si sta rannicchiati gomito a gomito e non c’è quasi spazio per muoversi, a questa struttura grandiosa, gigantesca, che è la stazione spaziale. Se venisse poggiata per terra riempirebbe più o meno un campo di calcio. Quando siamo arrivati, ci hanno aperto la porta i tre colleghi che erano a bordo. Funziona sempre così: quando arriva un equipaggio nuovo di tre persone, c’è sempre un altro equipaggio di tre persone già a bordo che rimane per un po’ per passare le consegne, spiegare come funzionano le cose. Così quando loro tre sono partiti, sono arrivati altri tre astronauti con cui abbiamo condiviso la seconda parte della missione.
Che cosa si fa a bordo?
Principalmente attività di ricerca scientifica, l’obiettivo primario della stazione spaziale. È un laboratorio in assenza di peso, perché non percepiamo l’effetto della gravità. In realtà la gravità c’è, però siamo in una sorta di stato di caduta libera attorno alla Terra in virtù del quale non si percepisce. Si fluttua, e questo evidenzia tutta una serie di fenomeni, per esempio tutto ciò che riguarda l’adattamento dei sistemi biologici. Poi, naturalmente, la stazione spaziale è una macchina complessa che richiede una costante attività di manutenzione: deve essere programmata, corretta, perché ogni tanto si rompe qualcosa ed è necessario uscire per andare a ripararla, facendo le famose “passeggiate spaziali”.
Durante la sua missione è stato necessario fare qualche “passeggiata spaziale”?
Durante la mia missione ce ne sono state tre. In quel caso, però, non si era rotto niente, ma bisognava fare un upgrade di alcuni componenti fuori della stazione spaziale. Sono usciti i miei due colleghi e a me rimane il sogno di fare anch’io una “passeggiata spaziale” nella mia prossima missione.
Come si svolge una giornata qualunque nello spazio?
A volte ci si rimbocca le maniche perché bisogna spostare cose, scaricare un veicolo cargo che arriva carico di tonnellate di rifornimenti e poi ci siamo noi con le nostre esigenze. Per mantenerci in salute facciamo ogni giorno un paio d’ore di attività fisica obbligatoria: sollevamento pesi in assenza di peso, corsa su un tapis roulant, senza svolazzare in giro per la stazione grazie a un’imbracatura, e abbiamo una bicicletta senza sella, ma con scarpette che si fissano ai pedali. In questo modo contrastiamo la tendenza a perdere massa ossea nello spazio, perché in assenza di gravità si rischia un’osteoporosi accelerata.
Quale attività le è piaciuta di più?
Il lavoro manuale! La maggior parte della nostra attività nello spazio era proprio un lavoro da meccanici: si trattava di esperimenti che non avevo inventato io, io dovevo solo elaborare i dati e capirne il contenuto scientifico. Passavo ogni giorno cinque ore con viti e cacciaviti tra le mani, cosa che trovavo molto gratificante.
Ha mai avuto paura nello spazio?
No, mai. Tutto si è sempre svolto come avevamo previsto grazie alle mille esercitazioni che avevamo fatto.
Non ha mai provato solitudine, claustrofobia, in quei 199 giorni nello spazio?
No, perché non siamo mai soli, ma sempre in compagnia dell’equipaggio, che diventa una famiglia. Sulla Terra ci sono situazioni di isolamento più estreme. Penso a chi lavora in Antartide o nei sottomarini.
Pensa che ci possa essere vita nello spazio?
Ci sono molecole nel nostro sistema solare che ci permettono di immaginare che ci possa essere o possa esserci stata vita, per esempio su Marte, e lì non è escluso che si possa effettivamente trovare qualcosa anche nei prossimi anni o nel prossimo decennio, quando ci saranno tante missioni come la ExoMars, per la quale l’Italia è il contributore principale.
Com’è stato il rientro?
Il rientro è un’esperienza molto bella, ma è necessario sapere prima cosa succederà, altrimenti nel momento in cui si viene catapultati verso la Terra si pensa di morire. Noi giriamo intorno alla Terra a una velocità di 7-8 chilometri al secondo e rallentiamo di 128 metri al secondo. Dopo mezzo giro intorno alla Terra, inizi a sentirti pesante, avverti un peso fortissimo che deriva da questa frenata e ti senti schiacciata. È una sensazione che aumenta progressivamente. Dopo mesi di assenza di peso, io mi sentivo un elefante. Quando si arriva verso i 90 chilometri e l’atmosfera inizia a essere densa, si genera un calore così forte che se guardi fuori dalla finestra, vedi le fiamme; verso i 10 chilometri si apre il paracadute e scendi per una quindicina di minuti; poi, se tutto va bene, le squadre di soccorso iniziano a parlarti e ti prepari all’impatto. Bisogna stringere benissimo le cinghie, in modo da non sbattere. Era una giornata bellissima in Kazakistan, quando sono atterrata nella steppa. Non c’era vento, la capsula ha oscillato un attimo, poi si è fermata e sono venuti a tirarmi fuori.