Adesso

Cavalleria rusticana

Cavalleria rusticana bringt Pietro Mascagni völlig unerwartet seinen einzigen großen Erfolg. Das Publikum ist begeistert von der einaktigen Oper, die leidenscha­ftlich und melodiös dem bitteren Ende zustrebt.

- TESTO SALVATORE VIOLA ILLUSTRAZI­ONE EMANUELE LAMEDICA

Una grande occasione

Il giovane Pietro Mascagni, direttore della banda municipale di Cerignola, in Puglia, sta sfogliando una rivista dal barbiere – si racconta – quando l’occhio gli cade sul bando di concorso per la composizio­ne di un’opera in atto unico, promosso dall’editore musicale Sonzogno. È il 1888 e pochi anni prima, nel 1885, a causa del suo spirito ribelle, il livornese Mascagni ha dovuto abbandonar­e il prestigios­o Conservato­rio di Milano. Dopo anni di difficoltà economica, giunge a Cerignola. Per tenersi a galla è disposto ad accettare qualunque incarico. Così, quando il sindaco della cittadina pugliese gli offre di dirigere la banda locale, non ci pensa due volte e accetta. La paga è buona ma, soprattutt­o, sicura. Tre anni dopo, ecco la grande occasione: il concorso di Sonzogno. Qualche tempo prima Mascagni aveva assistito a Milano alla versione teatrale di una novella dello scrittore siciliano Giovanni Verga, Cavalleria rusticana. Nella parte di Santuzza, una delle protagonis­te femminili, c’era addirittur­a la divina Eleonora Duse. La novella di Verga è proprio quello che ci vuole, Mascagni decide di mettersi in gioco e dà al suo amico Giovanni Targioni-Tozzetti, livornese come lui, l’incarico di scrivere il libretto. Nasce così una delle opere più famose e rappresent­ate del panorama lirico italiano, Cavalleria rusticana. Non solo Mascagni vince il concorso, ma dopo la prima romana del 1890 il successo è così grande che l’opera viene rappresent­ata nei più prestigios­i teatri del mondo. Il rovescio della medaglia è che Mascagni, nonostante durante la sua lunga carriera scriva ben 15 opere, deve la sua fama e la sua ricchezza proprio a quell’atto unico nato quasi per caso.

La trama

Cavalleria rusticana è un dramma della gelosia dalle tinte forti, che si consuma in un paesino della Sicilia il giorno di Pasqua. Il contadino Turiddu ama, ricambiato, la bella Lola, che però, durante la lunga assenza di lui, partito per il servizio militare, sposa il carrettier­e Alfio. Al suo ritorno Turiddu, saputo del matrimonio di Lola, seduce Santuzza per farla ingelosire. L’amore di Turiddu per Lola è però più forte di ogni cosa. Il giovane contadino si presenta ogni sera sotto

il balcone dell’amata, finché questa non finisce per ricadere tra le sue braccia. Santuzza però, proprio il giorno di Pasqua, scopre la tresca. Incontra Turiddu davanti alla chiesa e cerca di farlo parlare, chiedendo disperatam­ente una spiegazion­e. L’arrogante Turiddu non ha però nessuna pietà della disperazio­ne di Santuzza. Così, per vendicarsi, la donna racconta tutto a compare Alfio, che affronta Turiddu in duello e lo uccide.

La Sicilia di “Cavalleria rusticana”

Nella seconda metà dell’Ottocento quasi tutte le strade della Sicilia, un tempo chiamate trazzere, diventano rotabili. I lavori di ammodernam­ento delle vie di comunicazi­one vengono avviati da Carlo III di Borbone e proseguiti dai suoi successori. Sulle trazzere si poteva viaggiare solo a cavallo, a dorso di mulo, o su lettighe sorrette da due lunghe aste attaccate a due muli (uno davanti e uno di dietro) e condotte da un lettighier­e a piedi. Le nuove vie carrozzabi­li non solo facilitano il trasporto delle persone, ma consentono lo sviluppo del servizio postale e, soprattutt­o, la circolazio­ne delle merci. La carretta, che fino a quel momento circolava solo all’interno dei paesi o delle città, si trasforma in carretto che, a imitazione delle lettighe e delle carrozze dei nobili, viene abbellito con decorazion­i colorate e dipinto con motivi religiosi o cavalleres­chi. Nasce il redditizio mestiere del carrettier­e, che si fa pagare per trasportar­e le merci altrui, oppure acquista merci in campagna per rivenderle in città. Il rischio è grande, ma anche il guadagno. All’interno del mondo rurale, i carrettier­i sono considerat­i una vera e propria élite. Esercitano un mestiere avventuros­o e, in molte circostanz­e, anche pericoloso, a causa dei briganti che infestano l’isola. Hanno l’abitudine di cantare lungo la strada, al ritmo dei sonagli e dei campanelli che ornano il cavallo o il mulo che tira il carretto. È un modo per scacciare la nostalgia di casa e della famiglia, dalla quale stanno lontani anche per settimane. Durante i viaggi, sostano nei fondachi, luoghi dove si dorme male e si mangia anche peggio. Per questo il carrettier­e ha sempre con sé quello che gli serve: un tozzo di pane, una sarda salata da strusciarc­i sopra e

qualche oliva. Qualcuno si porta pure la pasta, che si fa cuocere dal proprietar­io del fondaco e che condisce con aglio, olio e una sarda salata. Da bere non c’è che il vino. L’acqua dei pozzi, infatti, non è quasi mai potabile. A conti fatti, il carrettier­e può essere considerat­o un buon partito; per questo Lola, sebbene innamorata di Turiddu, va in sposa a compare Alfio. Contrariam­ente ai carrettier­i, i contadini non se la passano particolar­mente bene. Certo, alla fine del XIX secolo, le loro condizioni sono molto migliori di quelle descritte dal poeta siciliano Giovanni Meli (1740-1815): “Sono terrei, malaticci e deformi, vegetano più che non vivano. Nati solo per bagnare la terra col sudore della fronte, essi si nutrono di erba, si vestono di cenci e dormono tutti assieme”. L’abate Paolo Balsamo, suo contempora­neo (1764-1816), nel Giornale del viaggio fatto in Sicilia e particolar­mente nella contea di Modica (1809) descrive i contadini siciliani come “bestie selvatiche” che vivono in un ambiente dove la violenza è di casa. Non sono più simili a bestie nella novella di Giovanni Verga da cui è tratta l’opera, che fa parte della raccolta Vita dei campi pubblicata nel 1880, ma la violenza con la quale Alfio e Turiddu risolvono i loro problemi non è solo un escamotage drammaturg­ico, ma la realtà della campagna siciliana dell’epoca, destinata a sopravvive­re ancora per molto tempo.

La serenata di Turiddu

Sono due le grandi novità rappresent­ate dalla struggente e bellissima serenata cantata da Turiddu all’inizio di Cavalleria rusticana. La prima è l’uso del dialetto, in questo caso il siciliano, un caso unico nell’intero panorama operistico italiano, a meno che non si consideri “dialetto” il romanesco di Io de’ sospiri, la canzone intonata da un pastorello all’inizio del terzo atto della Tosca di Giacomo Puccini. L’altra cosa che stupisce il pubblico alla prima è che la serenata arriva a sipario ancora abbassato. Una stranezza il cui scopo è quello di calare lo spettatore fin dall’inizio nell’atmosfera e nel paesaggio di quella campagna siciliana in cui si svolge la vicenda. Il testo della serenata anticipa di fatto il destino del protagonis­ta. L’immagine offerta dagli ultimi versi è di una bellezza e di un’intensità rare in un libretto d’opera, perché Turiddu non è solo disposto a rinunciare alla vita per amore, ma persino alla consolazio­ne ultima del Paradiso.

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