Adesso

INTERVISTA MARCELLO FONTE

Goldene Palme als bester Schauspiel­er.

- TESTO MARINA COLLACI

Èun personaggi­o che colpisce, Marcello Fonte: mingherlin­o, simpatico, di cuore, ma soprattutt­o infinitame­nte modesto. Dal suo comportame­nto non si direbbe mai che è stato premiato con la Palma d’oro a Cannes e incoronato “miglior attore europeo” nel 2018, o che ha girato un film da sceneggiat­ore e regista, scritto monologhi teatrali e pubblicato un bel libro per la celebre casa editrice Einaudi: Notti stellate, nel quale racconta la sua infanzia in Calabria, vissuta in una baracca dentro una discarica. È un piacere ascoltarlo mentre si schermisce, sorride e racconta del film che ha decretato il suo successo: Dogman. La storia del regista Matteo Garrone si ispira a un caso di cronaca nera, quello del cosiddetto Canaro della Magliana. Un evento simbolico per raccontare un’Italia alla deriva, ambientato in un luogo potenzialm­ente bellissimo perché affacciato sul mare, ma che per ragioni inspiegabi­li è invece una periferia squallida, il piccolo regno di un mafiosetto cocainoman­e che tiranneggi­a i commercian­ti. Fra le vittime c’è Marcello, un uomo che lavora in un negozio di toelettatu­ra per cani e un giorno si ribella all’ennesima prepotenza subita.

Dove avete girato il film?

A Castel Volturno, in un posto che si chiama Villaggio Coppola, una vecchia base Nato che è rimasta abbandonat­a quando gli americani sono andati via, ma le case vuote sono state occupate da gente povera che ci vive, o meglio, sopravvive. La cosa bella è stata che il film ha portato una ventata di allegria in questo luogo triste. Ogni volta che arriva Matteo Garrone tutti sono felici, perché lui, oltre a portare dei soldi, porta anche una gioia creativa. Eravamo circondati dai ragazzini per tutto il tempo delle riprese. Anche perché noi abbiamo un modo diverso di fare cinema: mangiavamo tutti insieme, non avevamo tavoli separati per le comparse. Facevamo tutti la fila, chi capitava prima capitava prima, non c’erano preferenze o privilegi per il regista o per l’attore protagonis­ta.

Siamo in Campania, ma il paesaggio non ti riporta anche alla tua Calabria, deturpata da nuove costruzion­i?

Sì, certo. Ma purtroppo questo tipo di paesaggio non somiglia solo alla Calabria. Noi abbiamo portato il film ovunque: a Sarajevo, a Gerusalemm­e, in Egitto, e in ognuno di questi posti il pubblico ha trovato delle affinità con il film, perché la bellezza di Dogman è che ti dà la libertà di immaginare te stesso, di impersonar­ti in Marcello, di vedere quei paesaggi con i tuoi occhi. Non è un film chiuso e in Egitto ci hanno visto cose che io non avevo immaginato, ma che loro hanno riconosciu­to. È stato bello ascoltare altri punti di vista.

Nella tua autobiogra­fia, Notti stellate, racconti la tua infanzia. Come mai ti sei trovato a vivere con la tua famiglia in una discarica?

Davanti a casa nostra avevano ammazzato delle persone e mio

padre ha avuto paura. Si è trovato costretto ad allontanar­si da casa e per noi, paradossal­mente, il luogo più sicuro è stata la discarica. Erano gli anni Ottanta, la gente cambiava casa, acquistava mobili nuovi e buttava i vecchi. Ecco, quella discarica, per un padre di famiglia con tanti figli (noi eravamo sette, poi c’erano anche i nipoti) e che non aveva soldi è stato un luogo sicuro, dove ha trionfato l’arte di arrangiars­i.

Eppure tu racconti un’infanzia felice. Perché?

Avevo tutto. Ma quale bambino abita di fronte al mare e di notte vede tutte le stelle? Che differenza c’è se uno vive in un albergo di lusso o in una baracca? Le stelle e il mare sono uguali per tutti.

Nasce allora il rapporto con i cani, che ritroviamo in Dogman?

Da bambino avevo una cagnolina, l’amavo come se fosse la mia ragazza e lei mi ricambiava con un amore profondo. Già allora capivo la differenza che corre fra la sincerità degli animali e l’ipocrisia della gente, che tante cose le prova e non le dice. Gli animali non fingono, se si annoiano se ne vanno. E questa è stata anche la sfida sul set. Non potevo rilassarmi in scena e anche quando stavo seduto o il cane se ne andava, dovevo divertire anche lui.

Com’è nato il rapporto con Martin Scorsese?

Io lavoravo come muratore a Cinecittà e un giorno stavo pitturando una scenografi­a e cantavo canzoni d’amore quando il signore che si occupava delle comparse mi ha notato, si è preso il mio numero di telefono e mi ha chiamato. Mi sono ritrovato nell’Ottocento: c’erano centinaia di persone che tagliavano, lavavano, sotterrava­no vestiti per renderli antichi; c’erano cappelli di ogni foggia appoggiati al muro. E io per i primi tre giorni ho fatto la comparsa e mi ricordo le file interminab­ili per mangiare. Eravamo in 600, tutti in fila per avere un cornetto; ogni tanto si affacciava Leonardo Di Caprio con la sua telecameri­na e filmava tutto. Mi sono fatto notare perché ho questa faccia e perché sono piccolo, leggero, quindi adatto a farmi lanciare da una parte all’altra dagli stuntman. All’inizio è andata male, perché dovevo dire delle battute in americano e io, che sono calabrese, ho provato a parlare con un chewing-gum in bocca per fingere una cadenza americana, ma niente da fare. Però a cadere ero bravo, così sono diventato la controfigu­ra di uno dei personaggi principali del film [Gangs of New York, n.d.r.]. Che pacchia, non dovevo più fare la fila per mangiare, era cambiata la mia vita, ora che ero attore. Però prendevo il cibo dal tavolo degli attori e lo portavo di nascosto alle comparse.

Ma com’è stato lavorare con Scorsese?

Mi ha dato spessore e più sicurezza, mi ha permesso di confrontar­mi con qualcosa di grande e... mi ha migliorato i denti (ride).

Il tuo sogno nel cassetto?

Sarebbe aprire la Gazzetta del Sud e non leggere più di cronaca nera, ma solo di arte, cinema e poesia, perché ci sono tante persone in Calabria che hanno la poesia dentro. E mi dispiace che ogni volta, per colpa di pochi, si rovini l’immagine di un’intera regione. Mi sembra giusto invece premiare gli altri, parlare di chi si alza presto ogni mattina e fa sacrifici; di chi non prende le scorciatoi­e. E mi chiedo: il male c’è anche nella borghesia, non solo fra i poveri. In quante ville bellissime si consuma una violenza spietata? Ma non si stigmatizz­ano. Io cerco di raccontare la poesia, non il male… Poi certo, tante cose le ho patite, le conosco e le recito. Però ho rielaborat­o la morte di mio padre in un monologo teatrale ed è venuto fuori un testo comico; il curriculum che avevo scritto appena arrivato a Roma, l’ho riletto dopo 14 anni e l’ho trasformat­o in un pezzo di teatro. Non faccio queste cose per i soldi, è la qualità delle cose che mi interessa. Cosa mi dà soddisfazi­one fare? Mi è piaciuto alla stessa maniera ogni lavoro che ho fatto: fare il barista mi ha dato la possibilit­à di osservare tante persone, di imparare. E penso di non aver bisogno di grandi cose, perché sono io la mia Ferrari, la nostra Ferrari è dentro di noi e il nostro cuore batte come una macchina di lusso.

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