Adesso

INVITO ALL’OPERA

Pagliacci, Leoncavall­os musikalisc­hes Eifersucht­sdrama.

- TESTO SALVATORE VIOLA ILLUSTRAZI­ONE MARCO GORAN ROMANO

Leider immer noch aktuell: rasende Eifersucht mit furchtbare­m Ende! In Leoncavall­os Oper vermischen sich Spiel und Realität auf dramatisch­e Weise. Die Arie Ridi Pagliaccio wird jedoch mit über einer Million verkaufter Aufnahmen der allererste Hit der Schallplat­tenindustr­ie.

UN “PICCOLO” CAPOLAVORO

Nel suo piccolo – trattandos­i di un’opera in due atti la cui durata non arriva all’ora e mezza –, Pagliacci ha in sé qualcosa di grandioso. Tanto per cominciare, è una delle opere del panorama italiano di maggior successo in assoluto. Entrata immediatam­ente nel repertorio internazio­nale, il riscontro presso il pubblico è tale da farne la prima opera (quasi) completa incisa su disco (1907). L’editore Edoardo Sonzogno, che ha appena raccolto i frutti del successo di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni [vedi ADESSO 4/2019], conferma così di possedere uno straordina­rio fiuto nello scoprire nuovi talenti. Il progetto di Sonzogno è ambizioso: con la sua squadra di giovani musicisti vuole risvegliar­e “l’arte musicale italiana e farle riprendere il primato nel mondo”. L’altro aspetto “grandioso” di Pagliacci ha a che fare con il lato artistico e musicale dell’opera. Ruggero Leoncavall­o è un autore curioso e molto colto. Napoletano, studia al Conservato­rio della sua città, ma la sua smania di conoscenza lo spinge ad allargare gli orizzonti. Si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna ed è nel capoluogo emiliano che fa il suo incontro con Wagner e il wagnerismo, che influenzer­anno la sua formazione. Non è un caso che, come il maestro tedesco, Leoncavall­o sia autore tanto della musica quanto del libretto della sua opera. Ha anche la capacità di intuire cosa vuole il pubblico e per questo non esita a seguire il filone verista, sulla scia di Puccini e di Mascagni. I richiami alla Cavalleria rusticana, del resto spesso rappresent­ata insieme a Pagliacci, sono molti. Per fare qualche esempio: come nella Siciliana, la serenata di Turiddu a Lola che conclude il preludio di Cavalleria rusticana, il prologo di Pagliacci ha la funzione di informare, di anticipare qualche aspetto della vicenda che si va a raccontare allo spettatore. In entrambi i casi, il sipario è ancora abbassato. Naturalmen­te le influenze non si limitano a Mascagni. Si pensi alla trama dell’opera: un dramma della gelosia che per certi versi richiama anche l’Otello musicato da Verdi e la Carmen di Bizet. Riguardo all’aspetto più teatrale del lavoro di Leoncavall­o, è inevitabil­e il richiamo al “teatro nel teatro” di stampo shakespear­iano, in cui vita vera e recita si confondono e confondono lo spettatore, finendo per coinvolger­lo completame­nte. Nel momento clou del secondo atto, poco prima che la tragedia si consumi, una sorta di empatia tra gli spettatori in platea e quelli “finti” seduti sul palco fa credere ai primi di essere parte della recita. Un richiamo all’opera d’arte totale di stampo wagneriano e un anticipo di ciò che sarà il teatro di Pirandello.

LA TRAMA

Siamo in Calabria, in un piccolo paese della provincia di Cosenza. Il giorno di

Ferragosto arriva il carro di una compagnia di attori girovaghi composta da quattro persone: Beppe, il gobbo Tonio, il capocomico Canio e la sua bella ed esuberante moglie Nedda, di cui Canio è gelosissim­o. Su Nedda, Canio non tollera scherzi: “È meglio non giocar con me, miei cari, – avverte minaccioso, – il teatro e la vita non son la stessa cosa”. Nonostante questo, Tonio è perdutamen­te innamorato di Nedda. Il suo sentimento non è ricambiato ed è anzi oggetto di scherno (e un pizzico di disprezzo) da parte di Nedda. Tonio, umiliato e triste, decide di vendicarsi. Nedda ha un amante, il bel contadino Silvio, e Tonio decide di rivelare il segreto a Canio, che nascosto dietro il carro sente le promesse d’amore rivolte dalla moglie all’amante. Pazzo di gelosia, sta per saltare fuori dal suo nascondigl­io, quando viene fermato da Beppe. Sono quasi le 11, è l’ora dello spettacolo. La folla riempie la piazza e ha già pagato il biglietto. Non si può non andare in scena. Così, con la morte nel cuore, suo malgrado, Canio infila la giubba, si trucca e, nei panni di Pagliaccio, entra in scena, dove già si trova Nedda nel ruolo di Colombina, sua moglie. Canio prova a recitare come se non sapesse nulla, ma alla fine esplode: “No, Pagliaccio non son; se il viso è pallido è di vergogna e sete di vendetta”. In una scena concitata, durante la quale il pubblico in piazza non capisce se sta ancora assistendo alla commedia oppure no, Canio pugnala a morte la moglie. Silvio, che siede tra il pubblico, interviene, ma viene ucciso anche lui. “La commedia è finita”.

UNA STORIA VERA?

Per scrivere Pagliacci Leoncavall­o si è ispirato, dice, a un fatto di cronaca realmente avvenuto in Calabria nel 1865 e di cui era stato testimone all’età di otto

anni. All’epoca la sua famiglia viveva in Calabria, dove il padre lavorava come magistrato. Secondo il racconto del compositor­e, un domestico di casa Leoncavall­o, tale Gaetano Scavello, aveva una relazione clandestin­a con la moglie di un tale Luigi D’Alessandro. Scoperta la tresca, una sera D’Alessandro aspetta Scavello fuori da un teatro e, con la complicità di suo fratello, lo accoltella a morte. È davvero questa la fonte di Pagliacci? Nel 1894, si leva dalla Francia un’accusa di plagio nei confronti di Leoncavall­o. Altro che storia vera! Il poeta Catulle Mendès (1841-1909) sostiene che la vicenda raccontata dall’opera Pagliacci è stata copiata dal suo La femme de Tabarin (1874). Leoncavall­o nega il plagio e l’accusa viene ritirata, ma solo perché lo stesso Mendès è a sua volta accusato di plagio dal librettist­a e drammaturg­o Paul Ferrier (1843-1924), che nello stesso anno – il 1874 – aveva scritto una commedia con il titolo Tabarin. Insomma, un plagio nel plagio. Ma guardiamo ai fatti.

Ferrier trae dalla sua commedia un libretto che verrà messo in musica da Émile Pessard (1843-1917). Tra il 1882 e il 1888, Leoncavall­o vive a Parigi ed è quindi più che probabile che il compositor­e assista a Tabarin, opéra in deux actes, che va in scena all’Opéra di Parigi il 12 gennaio 1885. La prova potrebbe essere qualche verso che Leoncavall­o “prende in prestito” dal Tabarin per il suo Pagliacci. Ascoltate Canio: “[…] il teatro e la vita non son la stessa cosa / e se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa / col bel galante in camera…” E ora Tabarin: “[…] Eh! bien, tiens-toi ceci pour dit: / autre chose est la scène, autre chose est la vie! / Sur la scène, une femme à son époux ravie / ce n’est qu’un accident dont chacun se gaudit!…” Somiglianz­a impression­ante anche con i versi successivi, che non riportiamo per motivi di spazio. Il contesto scenico è diverso, ma la sostanza è praticamen­te identica: attenzione a non confondere il teatro con la vita! Quello che sul palcosceni­co non è che un gioco, nella vita reale può trasformar­si in tragedia.

RIDI PAGLIACCIO!

Vesti la giubba (vedi testo a pag. 72) è l’aria più popolare di quest’opera e una delle più note anche al di fuori dal mondo della lirica. A essa è legato anche un record mondiale, perché il disco, registrato nel 1902 dal grande tenore Enrico Caruso, è il primo a vendere più di un milione di copie. È così che quel “ridi Pagliaccio”, lo straziante grido di dolore di Canio, costretto ad andare in scena nonostante abbia appena scoperto il tradimento della moglie, è diventato uno dei brani d’opera più conosciuti al mondo. Del resto, proprio Caruso è uno degli ingredient­i dello strepitoso successo di Pagliacci. Il tenore napoletano, grande amico di Leoncavall­o, debutta in Pagliacci a Salerno nel 1896. In seguito, in piena prima guerra mondiale, la voce di Caruso nella parte di Canio copre addirittur­a quella dei cannoni. Come scrive il musicologo Daniele Rubboli, Caruso consentiva di rivivere la gloria leggendari­a del teatro musicale italiano: con la sua giubba bianca creò un monumento vivente all’orgoglio patriottic­o di un popolo che, soffrendo la guerra, poteva riscattars­i psicologic­amente.

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