L’ITALIA IN DIRETTA
„2019 WIRD HERVORRAGEND“tönte Giuseppe Conte noch im Januar vollmundig. Nun steht Europas Wirtschaft still, der Zollkrieg zwischen den USA und China trägt das Seinige bei und ITALIEN RISKIERT EIN NULLWACHSTUM.
Aufschwung abgesagt, von Riccardo Iacona.
Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio, lo scorso 31 gennaio 2019, in risposta alle preoccupazioni del mondo del lavoro e delle imprese per il segno meno davanti a tutti gli indici economici dell’ultimo semestre del 2018 – meno produzione, meno lavoro, meno investimenti, meno export – aveva dichiarato che non c’era nulla da temere per l’Italia, perché il 2019 sarebbe stato, testuali parole, “un anno bellissimo!”
Tre mesi dopo quelle ottimistiche previsioni, a riportare il governo Lega e Cinque stelle con i piedi per terra è stato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria. “Per l’Italia è prevista crescita zero”, ha dichiarato, certificando quello che la stragrande maggioranza degli economisti italiani andava dicendo e scrivendo già dal settembre 2018, ovvero che la flebile crescita del Pil dell’Italia stava rallentando e le manovre economiche messe in campo dal governo (flat tax, reddito di cittadinanza e riforma del sistema previdenziale) non avrebbero dato quella spinta alla domanda interna necessaria per far ripartire la crescita.
Ad aggravare la situazione economica italiana ed europea c’è il difficile rapporto tra gli Stati Uniti di Trump e la Cina. La cosiddetta “guerra dei dazi” tra le due potenze ha avuto effetti catastrofici non solo sui rispettivi mercati, ma anche, per effetto della
globalizzazione, sul commercio internazionale, con conseguenze anche per l’Europa. Secondo l’ultimo Economic Outlook dell’Ocse, “la crescita economica globale continua a perdere forza per le persistenti tensioni commerciali”. Stando al rapporto, “in Europa, la crescita del commercio si è arrestata, riflettendo un rallentamento della domanda sia interna che esterna”. Insomma, quella che abbiamo davanti è una vera e propria “tempesta perfetta” e l’Italia è quella che rischia di pagare il prezzo più alto. Siamo quelli che nell’eurozona sono sempre cresciuti meno. Se tutti gli altri realizzeranno una crescita di qualche frazione di punto percentuale, noi finiremo sottozero, come dichiarato dallo stesso ministro Tria: “Si è fermata la Germania e, di conseguenza si è fermata la parte più produttiva dell’Italia”. Di fronte a questo scenario così preoccupante, il mantra del governo italiano è “abbiate fiducia”: bisogna solo aspettare che le misure economiche producano i loro risultati virtuosi, che i 25 miliardi di euro messi sul piatto per la riforma delle pensioni, la flat tax e il reddito di cittadinanza arrivino nelle tasche degli italiani e finalmente ridiano ossigeno alla domanda interna. A quel punto, l’aumento del Pil andrà a coprire il buco di bilancio di una manovra fatta tutta a debito. Una scommessa a cui pochi economisti credono e che, se
dovesse andare male, farebbe saltare i conti pubblici dell’Italia, già molto traballanti.
C’è infine un altro elemento che rende il quadro ancora più drammatico ed è la crisi politica dell’Europa, che ormai sta bloccando Bruxelles da parecchi anni e ha avuto i suoi momenti più gravi nella gestione del rischio default di Grecia e Portogallo, quando la classe dirigente dell’Unione ha scelto la strada dell’austerità e del pareggio di bilancio, imponendo sacrifici insopportabili ai paesi del Sud Euro pa, Italia compresa. Soprattutto, ha rinunciato a fare “buon debito pubblico europeo” per contrastare il declino economico globale con piani di investimento in infrastrutture, conoscenza, innovazione: “Obama ha fatto schizzare il debito alle stelle e ha tirato fuori gli Stati Uniti dalla crisi del 2008 in due anni”, ha dichiarato Romano Prodi, uno dei padri dell’Unione. “In Europa, invece, abbiamo cominciato a litigare”, ha concluso. La rinuncia a uno slancio solidaristico, non aver saputo mettere in campo l’enorme forza di un continente con 500 milioni di abitanti, il più ricco mercato del mondo, con il fior fiore dell’industria e dell’innovazione mondiale per salvare greci, portoghesi e anche i 100 milioni di cittadini europei che dal 2008 in poi hanno perso il lavoro e sono entrati nella fascia di povertà, ha ridotto di molto il fascino del sogno europeo. Per noi italiani, forse il paese più fragile di tutta l’eurozona, le conseguenze sono ancora più drammatiche: la crisi ha fatto crescere la diseguaglianza sociale, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata e il paese, ormai, è spaccato in due, con un Sud che ha il Pil della Grecia e Nord e Nord-est che viaggiano ai ritmi della Germania.
L’Italia ha vissuto gli ultimi 11 anni sul filo del rasoio: da una parte, per colpa delle politiche di austerità, è stata costretta a rinunciare agli investimenti pubblici per sanare gli squilibri provocati dal mercato; dall’altra la nostra economia è diventata nel tempo sempre più dipendente dai mercati internazionali e dall’export. Se il commercio internazionale si contrae, come sta succedendo, le nostre migliori imprese rischiano il default. Una partita delicata, che dipende molto dai risultati delle prossime elezioni europee: quale modello di Europa uscirà dalle urne? Quella ossessionata dal rigore sui conti pubblici “a tutti i costi” o quella che spinge perché l’Europa sia veramente “la casa di tutti” e non solo dei più fortunati? È chiaro che dalla risposta a questa domanda dipende il futuro stesso, politico ed economico, dell’Unione.