Adesso

INTERVISTA

ALEX ZANARDI

- TESTO MARINA COLLACI

In vieler Hinsicht ein Held.

Alex Zanardi, il pilota di Formula Uno che il 15 settembre 2001, durante una gara di Formula Cart nel circuito tedesco di Lausitzrin­g, perse le gambe in un brutto incidente, ripete spesso una frase: “Sono un uomo fortunato”. Campione nello sport e ancor di più nella vita, non si è mai lasciato andare, reinventan­do da zero una nuova carriera sportiva che l’ha riportato a correre con le macchine e a salire in bici. Alex è diventato infatti campione paralimpic­o e mondiale di handbike, una forma di ciclismo in cui si pedala con le braccia, e si è cimentato nell’Ironman, la gara più dura del triathlon, sfidando anche colleghi normodotat­i e stabilendo il primato mondiale paralimpic­o. Nato a Castel Maggiore bolognese, da papà idraulico e mamma sarta, già da ragazzino Alex aveva una grinta notevole, senza la quale non avrebbe potuto conquistar­e il mondo delle macchine da corsa che, si sa, è appannaggi­o dei ricchi e di accesso non facile. Ancora bello, a dispetto dei suoi 53 anni, si racconta con ironia, passione, orgoglio, ma allo stesso tempo con enorme modestia: “Non sono mica un santone”, sbotta con il suo simpatico accento bolognese quando gli si fa un compliment­o.

Alex Zanardi, com’è nata la sua fortissima passione per lo sport?

Da bambino ero grassottel­lo, non emergevo nelle discipline sportive scolastich­e; anzi, ero fra gli ultimi. Questo ha avuto un influsso sulla mia vita. Quando devi superare maggiori difficoltà rispetto a chi nasce più dotato, arrivi di fianco ai tuoi avversari e

corri più forte, perché sei partito più indietro e li passi di slancio.

È nata allora la consapevol­ezza del corpo che l’ha portato a essere quello di oggi?

Non c’è dubbio. Quando ho cominciato a correre con il gokart ero ancora grassottel­lo e piccolino, dovevo ancora subire la metamorfos­i fisica dell’adolescenz­a. Poi sono diventato più alto, di conseguenz­a più slanciato, ma ho anche cominciato a seguire una dieta diversa, perché per le mie ambizioni sportive il peso aveva una grandissim­a importanza. Alla soglia dei 14-15 anni ho iniziato a trasformar­mi fisicament­e non nel prototipo del superatlet­a, ma certamente in qualcosa che gli assomiglia­va un po’ di più rispetto a quando ero bambino.

Cosa l’affascinav­a del go-kart: l’ebbrezza della velocità?

È fin troppo facile immaginare che una persona che fa dell’automobili­smo il proprio mestiere sia affascinat­a dal rischio, ma è una visione sbagliata. È logico che mi sono sempre piaciute le auto, passione condivisa del resto da milioni di persone. Tuttavia ho nutrito sempre un grande interesse non solo per la guida, ma anche per tutti gli aspetti tecnici legati al mondo che ha colorato la mia vita. Infatti credo di essere diventato anche un buon collaudato­re dei mezzi che ho guidato. Un fascino che provavo già da piccolo: ricordo ancora quando mio nonno mi regalò una motociclet­ta a retrocaric­a che aveva un meccanismo con una molla interna. Avrò avuto 5 o 6 anni, ho preso un cacciavite e l’ho smontata completame­nte, perché

volevo vedere com’era fatta dentro. Mio nonno, disperato, ha pensato che non sarei più stato in grado di rimontarla e in effetti non credo di averlo fatto, ma volevo capire gli ingranaggi e comunque il suo regalo è stato molto gradito.

Chi corre sfida la morte. Come si coniuga questa sfida con la passione per la vita che Lei ha dimostrato di avere dopo l’incidente?

Io contesto questa affermazio­ne. Penso che si sia sempre enfatizzat­o il concetto del rischio legato al mestiere del pilota perché fa gioco, perché la gente si appassiona se pensa a possibili incidenti. Ci sono certamente attività meno rischiose, ma ci sono anche tante attività che facciamo ogni giorno e che implicano rischi superiori a quelli che si prende un pilota in pista. Io penso di essere stato sempliceme­nte sfortunato, perché nella storia dell’automobili­smo sono l’unico pilota che ha perso le gambe per colpa di un incidente. Invece ogni giorno muoiono migliaia di persone sulle strade, e questo non ci spinge a dire: “Oggi prendo il treno perché la macchina è pericolosa!” Ci siamo abituati a quelle morti. Se un pilota muore, ne parlano i telegiorna­li e i giornali, allora ci viene da dire: “Poveretto, se l’è andata a cercare!” Ma non è vero! Il caso di Michael Schumacher è emblematic­o: sciava con suo figlio su una pista facile. Il figlio è andato da una parte, lui ha cambiato direzione, ha preso un sasso, è caduto e conosciamo le conseguenz­e. La vita è questo, è fatta così.

Lei è un esempio per tutti, non soltanto per chi è disabile. È stato lo sport a infonderle la forza e la capacità di affrontare il dolore, la disciplina?

Mi permetto di dire che la mia forza è molto apparente e non so se sia anche di sostanza. Io posso essere forte per determinat­e cose, non per altre che magari per molti sono facili: quando cerco di essere un buon padre per mio figlio, di passargli degli insegnamen­ti e lui fa spallucce di fronte ai miei ragionamen­ti, mi sento più disabile che di fronte a una rampa di scale. Ognuno di noi ha un carattere unico e inimitabil­e e l’immagine che le persone colgono della mia persona è certamente di un uomo che non si arrende davanti a nulla. Non è vero, ci sono tante cose che mi fermano e che mi fanno sentire molto piccolo e fragile. Ma sicurament­e sono un ottimista, una persona che nella vita ha dovuto affrontare tante sfide diverse. La vera eccezional­ità della mia vita non è di aver fatto cose eccezional­i. L’unicità del mio percorso è data da quante cose speciali sono riuscito a infilarci, in questa mia vita. Non c’è dubbio che tutto questo mi abbia formato, che mi abbia educato e reso una persona più forte di quello che sarei potuto diventare. È attraverso le esperienze che ho acquisito i metodi e gli strumenti per fare le cose.

Arrivare quinto al triathlon, in una gara alla quale partecipav­ano 3.000 sportivi normodotat­i, è stato sbalorditi­vo. Lo ammette?

Ancora una volta perché l’aspettativ­a era tutto sommato modesta. Uno pensa: “Ma quello senza gambe, va a fare Ironman e percorre 4 chilometri a nuoto, 180 in bicicletta e 42 a piedi in maratona? Ma è matto? Ma quello muore, non viene fuori dall’acqua!” Se l’aspettativ­a è questa, se in una gara cui partecipan­o 200 atleti profession­isti e 3.000 normodotat­i quello senza gambe, che ti aspettavi che sarebbe morto annegato ancora prima di fare il primo chilometro in acqua, finisce quinto assoluto, è logico che ti viene da dire: “Ma quello lì è un fenomeno!” La realtà è che se tu avessi la capacità di valutare la prestazion­e da un punto di vista tecnico, ti renderesti conto che quello che ho fatto io è rilevante, non è una roba da poco e non è una cosa che possono fare tutti: serve tanta preparazio­ne, studio e tanto allenament­o. Però è tecnicamen­te fattibile, se no non l’avrei fatto e quindi io sono molto orgoglioso.

 ??  ?? Alex Zanardi (53) è autore di numerose imprese sportive, tra cui la vittoria alle Paralimpia­di del 2016 nella categoria handbike e il record mondiale paralimpic­o nell’ultima edizione della corsa Ironman.
Alex Zanardi (53) è autore di numerose imprese sportive, tra cui la vittoria alle Paralimpia­di del 2016 nella categoria handbike e il record mondiale paralimpic­o nell’ultima edizione della corsa Ironman.
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