S
arà capitato anche a voi di essere tristi e di passare la giornata ascoltando musica triste almeno quanto voi, in una specie di “chiodo scaccia chiodo” della malinconia, invece di distrarre la mente dai cattivi pensieri con qualcosa di allegro. Ecco, io durante queste giornate trascorse in casa nell’attesa, e nella speranza, che l’epidemia passi, mi sono riletto il capitolo XXXI dei Promessi sposi, quello dedicato alla peste, e pure La peste di Albert Camus. E sono sicuro di non essere il solo. Perché? Semplice: come tutti, in un momento così difficile per il mondo intero, sono in cerca di risposte che non si trovano nei numeri delle statistiche. Gli esperti e i responsabili della salute pubblica ci forniscono informazioni sul virus e dati sull’andamento dell’epidemia. Sono importantissimi, per carità, ma non ci dicono nulla di noi, del nostro trovarci in balia della natura, in preda a forze completamente fuori dal nostro controllo. Quello che trovo nei libri non sono che brandelli di risposta, ma mi bastano per cominciare. Nel capolavoro del nostro Alessandro Manzoni sono riprodotti con realismo impressionante gli stessi meccanismi di rifiuto prima (ma che pandemia!), di incredulità poi (ma no, vedrai che da noi non arriva) e infine di amara presa di coscienza (ah, se avessimo agito prima) ai quali abbiamo assistito quando sono suonati i primi campanelli d’allarme per il Coronavirus. Come se pensassimo di essere intoccabili e trovassimo inconcepibile essere vittime di calamità che siamo abituati a
considerare lontane, anzi, lontanissime. Nell’opera di Camus, che colpevolmente rileggo dopo più di 20 anni, ritrovo l’uomo che di fronte all’epidemia, alla peste, scopre l’assurdità del mondo, un’assurdità che non ha nulla da insegnare se non, come annota il medico Bernard Rieux, il protagonista del romanzo, “che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare”. Orano, la città algerina dove si svolge la vicenda, è chiusa da un cordone sanitario: è quella che oggi chiameremmo “zona rossa”. Al suo interno ognuno affronta la situazione come può e come sa, in attesa che il pericolo passi o si trovi un rimedio. C’è un passaggio straordinario, una frase semplice quanto definitiva, pronunciata da Jean Tarrou, un altro personaggio, rivolgendosi al dottor Rieux: “…questa epidemia non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla al suo fianco”.
Ecco, in uno stato di necessità eccezionale, provocato da qualcosa che non possiamo vedere e a malapena controllare, di fronte a un accidente che ci colpisce tutti, inopinatamente e senza eccezioni, non ci resta che riscoprirci uomini e attivare quella solidarietà di specie – la cui versione sublime è la compassione – che sembrava da tempo perduta. Abbiamo dormito il sonno dell’egoismo, ci siamo riflessi nello specchio del narcisismo, ora è arrivato il momento di svegliarci, di distogliere lo sguardo da noi stessi per combattere fianco a fianco. Con e per i nostri familiari. Con e per i nostri vicini in difficoltà, le cassiere del supermercato, i farmacisti, i medici, gli infermieri. Con e per chi ogni giorno sale su un camion o un furgone per rifornirci di ciò che ci serve e ci consente di mantenere almeno qualche briciola di normalità. Anche noi vogliamo essere con voi ed esserci per voi. Adesso che i treni sono fermi nelle stazioni, gli aerei negli hangar, le frontiere chiuse. Adesso che tutti noi, per impedire a un nemico invisibile di colpirci, ce ne stiamo chiusi in casa, proprio adesso è il momento di viaggiare con il solo mezzo che non conosce ostacoli e che nessun decreto, nessuna legge potrà mai fermare: l’immaginazione.
CITTÀ SOSPESE
Le città sono silenziose come foreste di cemento e pietra. Le nostre voci, le grida, il rumore delle nostre auto, dei nostri passi sul marciapiede non si sentono più. Eccole Roma, Napoli, Milano, Palermo, Venezia e Firenze, alcune delle città italiane più conosciute al mondo. Città brulicanti di vita, di solito piene di turisti giunti da ogni parte del mondo per ammirarle. Quante volte, turisti a nostra volta, ci siamo detti: “Come sarebbe bello avere tutta la città solo per me”. Un giorno, un’ora, un istante, quel tanto che basta per tirare un respiro e far finta che tutto sia lì solo per noi. Adesso che le abbiamo svuotate della nostra presenza, le città se ne stanno lì, vuote e nude, o meglio, vestite solo della loro immortale, straziante e assoluta bellezza. Perché a rimanere, al di là e prima di ogni cosa, è proprio la bellezza. Una bellezza che non può essere deturpata né cancellata da nessun virus del mondo, una bellezza piena di promesse, per quando torneremo “fuori”.
In queste pagine vi mostriamo Roma, Napoli, Milano, Palermo, Venezia e Firenze, come non le avete mai viste e, forse, come non le vedrete mai. Le immagini sono di una potenza incredibile. Davanti ai nostri occhi, lo spettacolo si rivela sur- reale e insieme carico di suggestioni. Tutto
appare sospeso, come se la vita stesse trattenendo il respiro. Paradossalmente, quelle strade vuote sono la vita in essenza, il canto muto dell’umanità. Sebbene senza voce, ogni muro, ogni pietra parla e racconta il genio, la creatività, la forza di volontà di chi ha loro dato forma, creando una statua, un arco, un palazzo, una cattedrale. Quelle strade piene di silenzio raccontano di noi, del vero significato di essere umani, uno di fianco all’altro. Quelle strade vuote ci insegnano che, finché siamo capaci di immaginare e creare bellezza, per la nostra specie c’è speranza. Non dimentichiamocelo, quando torneremo fuori.
“Trastevere è vuota, la città deserta”, è il commento rassegnato di Sergio. Roma, la sua città natale, che accoglie ogni anno 29 milioni di turisti da tutto il mondo, oggi è irriconoscibile. Scomparsa, come per magia, la folla che ogni giorno dell’anno si assiepa davanti alla Fontana di Trevi per scattare un selfie. Non c’è coda davanti al Colosseo, la scalinata di Piazza di Spagna è sgombra, nella vicina Via Condotti non si fa più shopping di lusso: i negozi restano chiusi. La Roma “della spavalderia del sabato sera” non esiste più. Eppure “vuota è ancora più bella e maestosa”, aggiunge Sergio. Non stento a crederlo. Mi torna in mente il film di Sorrentino, dove una Roma notturna, immobile, privata e segreta si svela al protagonista Jep Gambardella, costringendolo a una riflessione più intima. La Roma irriconoscibile di queste settimane sta lasciando spazio a qualcosa di nuovo, non per forza negativo. “C’è un senso di unione che prima non si percepiva”, spiega Sergio. “C’è solidarietà sui terrazzi, si dà più valore alle cose”. Dentro allo sconforto, ha trovato spazio la speranza.
“Ue’ Matteo, che piacere sentirti!” Mentre mio marito parla con un suo amico napoletano, mi intrometto nella conversazione: “Francesco, come sta Napoli?”. “Eliana, in verità non sembra di essere a Napoli, c’è un silenzio irreale, è una città fantasma. Le strade sono vuote! Nelle strade, l’anima di questa città, dove si riversa la gente, fino a un paio di mesi fa si sentiva parlare, ridere, cantare… E adesso? Tutto questo non c’è più. Ecco, vedere la mia città così fa male. Nonostante la quarantena, però, qualcuno esce. E la polizia a volte chiude un occhio”. Sorrido, pensando al modo di fare dei napoletani, unico al mondo. Così come il loro cuore. “Dal caffè sospeso siamo passati alla spesa sospesa. E molti calano i panari, i cestini che si usano nelle case senza ascensore per portare su la spesa, pieni di alimenti a lunga scadenza a disposizione di chi non può comprare nulla”. “Forza, che presto si potrà ricominciare a uscire”, auguro a Francesco, salutandolo. Ha già le idee chiare su quello che farà: “Andrò al mare, poi una passeggiata in Via Caracciolo o a Posillipo e poi una pizza!” E viene voglia di raggiungerlo.
Piazza del Duomo deserta, chiusi uffici e fabbriche, i mezzi di trasporto vuoti. La città “che non si ferma mai” è bloccata dal Coronavirus e si trova privata in qualche modo della sua stessa identità. “Nei primi giorni di quarantena sembrava di essere nella settimana di Ferragosto”, mi racconta Elena, un’amica milanese. “Poi però, quando vedi le file davanti ai supermercati, hai la sensazione di essere in guerra. Io non l’ho mai vissuta, ma la immagino così: tutti in fila per comprare il cibo”. Cosa ti ha colpito di più? “Il silenzio irreale, o meglio, surreale. Per chi vive da sempre in centro, come me, è davvero la cosa più strana, insieme all’assenza di macchine. Ma questo significa anche che il cielo è più azzurro e l’aria pulita e inodore, esperienze completamente nuove. È cambiato anche il rapporto con le persone. Siamo distanti fisicamente, ma siamo più solidali. Per farti un esempio, un signore per la strada, vedendomi in difficoltà, mi ha aiutato a portare la spesa”. E quando tutto questo sarà finito? “Come prima cosa andrò dal parrucchiere! Può sembrare superficiale, ma così mi sembrerà di ritornare alla vita normale”.
Vucciria non è solo il nome di uno dei famosi mercati di Palermo. In siciliano, vucciria significa “confusione” e, quando arrivi in città, a colpirti per primo è proprio il rumore. Il rombo dei motori, i clacson delle auto e dei motorini che ti sorpassano a destra e a sinistra, sono una sorta di colonna sonora della città. Quando passeggi lungo il Cassero, come tutti chiamano Via Vittorio Emanuele, in pieno centro, alla confusione della gente che cammina si aggiungono le grida del vicino (ma non vicinissimo) mercato di Ballarò, le voci dei venditori che vantano a gran voce la bontà della loro merce. Perciò è difficile per me immaginare Palermo vuota e silenziosa. Chiamo mio fratello, che ci vive ancora: “Salvo, hai presente Palermo a Ferragosto? Ecco, è così da quasi un mese”. La ricordo bene, Palermo a Ferragosto. Svuotata della sua umanità, rimane una città sospesa in una dimensione di sogno, avvolta in una bolla di luce e calore, muta. “Palermo com’è ora – continua mio fratello – è bellissima, ma… ma non è Palermo”.