Adesso

L’AUTORE

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Premio Strega nel 1950, La bella estate resta un’opera tra le più emblematic­he non solo del grande scrittore torinese, ma del difficile tempo dell’antifascis­mo e del primo dopoguerra. Nonostante la sua poetica intimista e le continue crisi sentimenta­li, che lo spingono al suicidio due mesi dopo il premio, Pavese è stato uno dei pilastri della cultura antifascis­ta torinese, negli anni subito prima e subito dopo l’ultima guerra. Traduttore e promotore della letteratur­a americana in un’Italia culturalme­nte oppressa dal Ventennio autarchico, è una figura decisiva nel rinnovamen­to, nonostante nutra scarso interesse per la politica. Nella vita come nei romanzi cerca di congiunger­e l’amore per la campagna, il mondo della sua infanzia perduta, con quello per la città moderna, il suo stile di vita disinvolto con i legami più semplici e profondi. La sua natura lo porta allo studio più severo, dall’antropolog­ia alla psicologia alle culture antiche, e non lo aiuta nei rapporti umani. Fin da giovane soffre di depression­e e, in età adulta, è incapace di trovare una donna a cui legarsi. Per tutta la vita progetta il suicidio, esprimendo con esso il dissidio di una generazion­e che non riesce ad adeguarsi alla realtà.

I GRANDI CAPOLAVORI DELLA LETTERATUR­A ITALIANA

 ??  ?? A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmen­te di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. “Siete sane, siete giovani, – dicevano. – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce”. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggi­ne e rubava tempo all’allegria.
Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagna­va a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpianger­e la compagnia.
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmen­te di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. “Siete sane, siete giovani, – dicevano. – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce”. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggi­ne e rubava tempo all’allegria. Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagna­va a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpianger­e la compagnia.

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