INVITO ALL’OPERA
Rigoletto, Verdis populäres Spätwerk.
“Il soggetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche”. Con queste parole Verdi cerca di persuadere Francesco Maria Piave a ricavare un libretto dal dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse (1832). Piave si convince e si mette al lavoro, ma presto deve scontrarsi con la censura. Nel documento di diffida firmato dal “Direttore Generale dell’Ordine pubblico di Venezia” l’argomento dell’opera viene definito “di ributtante moralità e di oscena trivialità”. Il 25 gennaio 1851, dopo mesi di faticose trattative che coinvolgono non solo Verdi e Piave, ma gli stessi responsabili del teatro La Fenice, il permes so di rappresentare a Venezia l’opera che, in un primo momento, Piave aveva intitolato La maledizione, viene concesso. Rigoletto – questo il titolo definitivo – va in scena l’11 marzo dello stesso anno e il successo è pari allo sconcerto che la vicenda del protagonista provoca in una larga parte del pubblico: un buffone di corte del duca di Mantova finisce per far uccidere la sua stessa figlia pur di vendicarsi dei soprusi subiti.
IL RIBALTAMENTO DEGLI SCHEMI
Il pubblico, abituato a simpatizzare con il protagonista, non sa che pesci pigliare. In Rigoletto saltano gli schemi consueti nell’opera romantica, in cui il tenore giovane, bello, ma soprattutto buono e puro, è quasi sempre vittima del baritono, che invece è brutto, o vecchio, e cattivo. Qui il protagonista è un essere dall’aspetto sgradevole, gobbo anche perché gravato dal peso della propria condizione. Rigoletto, circondato dall’odio sulla scena, non risulta meno respingente a chi sta seduto tra il pubblico. Non è così diverso dai “cortigiani”, che pure è il primo a disprezzare in quanto parassiti, senza onore né morale, dediti solo al pettegolezzo e a tramare chissà quali malefatte. Nella sua deformità Rigoletto pare riflettere, come in uno specchio, la loro corruzione morale e materiale. Farebbe e fa di tutto per colmare la distanza tra sé e quei nobili degenerati, tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, ma non sarà mai. Così come farebbe e fa di tutto per compiacere il suo padrone, il duca di
Titolo originale:
Autore:
Giuseppe Verdi
Libretto:
Francesco Maria Piave
Prima:
11 marzo 1851 al teatro La Fenice
di Venezia.
Fonte letteraria:
di Victor Hugo.
Mantova, un personaggio in cui carisma, bellezza e capacità di seduzione sono direttamente proporzionali alla totale assenza di qualsivoglia sentimento morale. Il suo trastullo prediletto sono le donne, tutte (Questa o quella per me pari son…). “L’amore” è per il Duca espressione della libertà dell’uomo dotato di un potere assoluto, di chi vuole e può. Guai a mettersi in mezzo!
LA MALEDIZIONE
Per conquistare le simpatie del suo padrone Rigoletto usa, ai danni dell’innocente conte di Monterone, di cui il duca ha sedotto la figlia, la sua arma più pericolosa, la lingua. Arriva addirittura a paragonarla al pugnale del sicario Sparafucile: Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Come se non bastasse la figlia disonorata, Monterone è costretto a subire le umilianti ingiurie di un buffone di corte. Questo è troppo! In una delle scene chiave dell’opera la sua voce è un tuono che esplode in una maledizione che travolge Rigoletto con tutta la sua potenza. Verdi infatti è convinto fin dall’inizio che “tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone...” Da questo momento, gli eventi precipitano. Rigoletto non è sempre in grado di controllare la sua “arma”, di frenare la lingua. Nessun problema se le vittime del suo scherno sono padri disonorati (Monterone) o mariti cornuti (il conte di Ceprano), ma se a essere colpiti sono i cortigiani, allora sono guai, guai grossi. Rigoletto pagherà la sua impudenza con la perdita del bene che custodisce gelosamente come l’oggetto più prezioso: la figlia Gilda, rapita per vendetta dai cortigiani e disonorata dal duca.
VENDETTA! TREMENDA VENDETTA!
Per Rigoletto è chiaro come il sole che l’unica responsabile delle sue disgrazie è la maledizione. Caduta su di lui, avrebbe invece dovuto colpire il vero colpevole e i suoi complici, il duca e i cortigiani
Il risentimento del buffone nei confronti della corte e del duca esplode nel grido disperato di vendetta, tremenda vendetta. Riproponendone la dinamica, Rigoletto sembra incarnare quel ressentiment che in Montaigne è proprio la volontà di vendetta che nasce dall’impotenza e dalla codardia e al quale Nietzsche, molti secoli dopo, dedicherà una parte essenziale della propria riflessione filosofica. La descrizione dell’uomo del risentimento che Nietzsche fa in Genealogia della morale (1887) sembra
aderire perfettamente al personaggio di Rigoletto: “L’uomo del risentimento non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso. La sua anima svillaneggia; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio; sa bene lui cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare, il momentaneo farsi piccini, farsi umili [trad. it. di Ferruccio Masini, n.d.r.]”. Ma Rigoletto, nell’organizzare la sua vendetta, non ha tenuto conto del potere che il duca esercita sull’animo femminile. Maddalena, sorella di Sparafucile, ingaggiato da Rigoletto per uccidere il duca, se ne lascia letteralmente incantare, mentre il duca intona La donna è mobile… (vedi box), una delle arie più conosciute del repertorio operistico italiano. La donna convince così il fratello a risparmiare il duca e a uccidere il primo che passa. Indovinate chi si presenta casualmente alla porta del sicario?
LA TRAMA
Rigoletto è il buffone di corte del duca di Mantova, un uomo potente e senza scrupoli, oltre che donnaiolo impenitente. Tra le fanciulle che ha sedotto ci sono la moglie del conte di Ceprano, preso in giro da Rigoletto, che provoca così l’ira degli altri cortigiani, e la giovanissima figlia del conte di Monterone. Proprio quest’ultimo si reca a corte a protestare per l’affronto ricevuto, ma Rigoletto si prende gioco anche di lui, mettendone in ridicolo l’orgoglio ferito. Il vecchio conte risponde all’umiliazione lanciando contro Rigoletto la sua maledizione. I cortigiani, intanto, intendono vendicare il conte di Ceprano. Saputo che a casa del buffone vive una bellissima ragazza, che credono essere la sua amante, decidono di rapirla. La giovane, che si chiama Gilda, è in realtà la figlia di Rigoletto e da qualche tempo riceve e ricambia le attenzioni di un bel giovane. Non sa, però, che nei panni di quel ragazzo apparentemente innamorato di lei si nasconde il duca. Questi ha appena lasciato la casa di Gilda, quando a sua insaputa la ragazza viene rapita e portata a palazzo dai cortigiani. Scoperto il rapimento, Rigoletto si dispera.
Anche il duca, che è tornato a trovare Gilda, si chiede che fine abbia fatto la ragazza. Rientrato a palazzo, scopre l’operato dei suoi cortigiani e si precipita da Gilda per rivelarle la propria identità. A questo punto anche Rigoletto, tornato a palazzo, ritrova la figlia. L’affronto subito è troppo grosso e Rigoletto, che vuole vendicarsi, decide che il duca deve morire. Per ucciderlo assolda il sicario Sparafucile, che per 20 scudi promette di consegnargli il cadavere del duca chiuso in un sacco. Con l’aiuto della sorella Maddalena, Sparafucile attira il duca in una trappola, ma la ragazza si innamora del duca e prega il fratello di risparmiargli la vita, di uccidere il primo che capita e di infilare il suo cadavere nel sacco da consegnare a Rigoletto. Naturalmente sarà Gilda la prima a incontrare Sparafucile e a essere pugnalata al posto del duca. Il sacco viene consegnato a Rigoletto, che sta per gettarlo in mare quando sente in lontananza la voce del duca. Aperto il sacco, si accorge con orrore che contiene la sua amata figlia.