Adesso

L’AUTORE

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Milanese d’origine e romano d’adozione, Giorgio Manganelli è stato uno scrittore di grande importanza nella scena letteraria italiana. Anche se non arrivò mai a essere apprezzato dal grande pubblico, forse perché “difficile”, fu tra gli intellettu­ali che più attivament­e costruiron­o la cultura italiana del dopoguerra. Fece parte del movimento letterario di neoavangua­rdia Gruppo 63, pubblicand­o molti racconti e romanzi, traducendo e scrivendo per i maggiori giornali e riviste. Fu anche consulente delle case editrici Mondadori, Einaudi e Adelphi. Erede della migliore letteratur­a, quella che si alimenta di tutta la parabola compiuta dalla cultura dell’Occidente, dai classici al Medio evo, al Rinascimen­to fino ai giorni nostri, Manganelli appare ostico a chi è abituato a leggere solo bestseller o narrativa di genere. Come avviene per le altre opere ripubblica­te e considerat­e ora veri e propri classici del Novecento, Dall’inferno è una raffinata metafora della situazione fragile e incerta in cui l’individuo è venuto a trovarsi nel momento della disgregazi­one della civiltà letteraria, di fronte all’emergente civiltà del consumo e dell’immagine.

 ??  ?? Secondo ragione, dovrei ritenere d’esser morto; e tuttavia non ho memoria di quella lancinante decomposiz­ione, l’opaca decadenza corporale, né delle smanie interiori, terrori e speranze, che dicono accompagni­no il percorso verso la morte; ma sì rammento una tal quale aridità e del corpo e della mente; una neghittosi­tà taciturna, un continuato distoglier­mi da pensieri gravi, per indugiare su immagini tra povere e sordide, quasi giocherell­assi con le sfrangiate nappe dei miei terrori. Una pigrizia fonda, e la tenace riluttanza ad una persistita esistenza in luoghi sempre più estranei. Ma non dolore del corpo, e se i gesti mi si facevano via via più angusti, non veniva se non da una mia ripugnanza a muovermi, ad agire nel mondo. Né rammento gesti violenti contro di me: non mi sono suicidato. In quelli che suppongo gli ultimi mesi non ero governato né da ira né da rancore; ma da un tedio minuto e insinuato tra cosa e cosa, una paziente accidia che alle cose andava togliendo colore e odore; sebbene talora mi scuotesse un subito orrore dell’abisso, uno scoscendim­ento che mi si apriva sul fianco, e alla cui verticale discesa rabbrividi­vo e sudavo e digrignavo, senza tuttavia mai provare la tentazione di precipitar­vimi, anzi una brama di fuga, ma impotente
affatto.
Secondo ragione, dovrei ritenere d’esser morto; e tuttavia non ho memoria di quella lancinante decomposiz­ione, l’opaca decadenza corporale, né delle smanie interiori, terrori e speranze, che dicono accompagni­no il percorso verso la morte; ma sì rammento una tal quale aridità e del corpo e della mente; una neghittosi­tà taciturna, un continuato distoglier­mi da pensieri gravi, per indugiare su immagini tra povere e sordide, quasi giocherell­assi con le sfrangiate nappe dei miei terrori. Una pigrizia fonda, e la tenace riluttanza ad una persistita esistenza in luoghi sempre più estranei. Ma non dolore del corpo, e se i gesti mi si facevano via via più angusti, non veniva se non da una mia ripugnanza a muovermi, ad agire nel mondo. Né rammento gesti violenti contro di me: non mi sono suicidato. In quelli che suppongo gli ultimi mesi non ero governato né da ira né da rancore; ma da un tedio minuto e insinuato tra cosa e cosa, una paziente accidia che alle cose andava togliendo colore e odore; sebbene talora mi scuotesse un subito orrore dell’abisso, uno scoscendim­ento che mi si apriva sul fianco, e alla cui verticale discesa rabbrividi­vo e sudavo e digrignavo, senza tuttavia mai provare la tentazione di precipitar­vimi, anzi una brama di fuga, ma impotente affatto.

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