Adesso

MICHELA MURGIA M

Die Gleichbere­chtigung fängt bei der Sprache an. INTERVISTA

- Il libro mostra con una serie [Reihe] di esempi che la violenza e la discrimina­zione nei confronti delle donne passano [passare: hier, gehen über ] anche attraverso il linguaggio quotidiano, che tende a cancellare o a banalizzar­e la figura femminile. Ne

Sensibel aber auch energisch bezieht die engagierte Autorin Michela Murgia Stellung zum Thema Gleichbere­chtigung. Ein prägendes

persönlich­es Ereignis hat sie dazu ermutigt!

Michela Murgia è seduta nel suo piccolo salotto trasteveri­no, a Roma, con una tazza di tisana tra le mani. “Sono stata poco bene. Ho bisogno di qualcosa che mi scaldi”, dice. In realtà ultimament­e, i motivi per scaldarsi sono stati tanti. Stai zitta (Einaudi) pubblicato all’inizio di

Stai zitta: e altre nove frasi che non vogliamo sentire piú

marzo, ha avuto una calda accoglienz­a da parte dei lettori italiani e già nelle prime settimane è schizzato in vetta alle classifich­e di vendita. Michela Murgia ha scelto l’alquanto provocator­io titolo dopo che lo psichiatra Raffaele Morelli, in un dibattito su Radio Capital, le aveva intimato, appunto, di “stare zitta”. Quell’accaduto personale ha fornito lo spunto per elencare i settori in cui ancora esiste un deficit nell’uguaglianz­a di genere. ADESSO l’ha incontrata per parlare proprio di questo.

Il tuo è un vero e proprio manifesto. Nel 2021 serve ancora questo tipo di libro?

Noi donne non abbiamo scelta. Se non lottiamo per i nostri diritti, rischiamo sempliceme­nte che ci vengano tolti. Basta guardare quello che da poco è successo in Turchia, dove Erdogan ha deciso di ritirare il paese dalla Convenzion­e di Istanbul perché ritiene che il desiderio delle donne di accedere all’aborto e al divorzio sia una minaccia per la famiglia tradiziona­le. Ciò significa che le donne turche d’ora in poi avranno molti meno diritti di prima.

In Inghilterr­a una donna, Sarah Everard, è stata rapita, stuprata e uccisa addirittur­a da un poliziotto. Cosa ne pensi?

Per quanto ne so, la stampa inglese non ha definito questo omicidio “femminicid­io”. Se lo fai, è come riconoscer­e che un simile omicidio è il prodotto di una società patriarcal­e. E poi la società in questione deve necessaria­mente prendere alcune precauzion­i speciali. Il femminicid­io, purtroppo, è un evento piuttosto comune anche in Italia. Nel 2020 sono state uccise 91 italiane – circa una donna ogni quattro giorni – e 81 di queste uccisioni sono avvenute all’interno della famiglia.

“C’è ancora molta strada da fare prima di permetterc­i di usare la parola uguaglianz­a ”

MICHELA MURGIA (49)

In Italia, però, la classe politica non sembra intenziona­ta a prendere provvedime­nti in merito. Sei d’accordo?

I politici hanno scelto un percorso che si concentra sulla punizione degli autori di quel crimine. Ma noi donne preferirem­mo di gran lunga che tentassero di salvarci da tanta violenza. È chiarament­e un problema culturale. Pertanto l’insegnamen­to sull’argomento dovrebbe essere introdotto nelle scuole. Da subito, da quando gli alunni sono piccoli. Vediamo troppi uomini che soffrono di analfabeti­smo emotivo. Non puoi cambiare questo modo di essere quando l’uomo ha già 40 anni.

Nel tuo libro racconti di un’indagine giornalist­ica che hai svolto per un certo periodo. Ce ne parli?

Da qualche mese controllav­o giorno per giorno quante giornalist­e firmano i pezzi in prima pagina dei due maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera e la Repubblica. Era un numero incredibil­mente basso. Sono gli uomini che scrivono gli editoriali e gli importanti pezzi finanziari o che fanno analisi politiche. Le donne tradiziona­lmente scrivono pezzi di costume, sulle abitudini della società e sulla moda. Raramente spiegano la realtà. E se lo fanno, è perché intervista­no un uomo che gliela spiega. C’è ancora molta strada da fare prima che possiamo permetterc­i di usare la parola uguaglianz­a.

E in termini di stipendio?

I giornalist­i uomini in Italia guadagnano circa il 18% in più delle donne. Il fatto è che in genere è incredibil­mente difficile per gli uomini italiani riconoscer­e l’autorità delle donne in una determinat­a area. Quindi noi donne dobbiamo insistere e ancora insistere sulla frase “vogliamo più influenza”. Ripetutame­nte. Fino a quando non la otteniamo.

In che modo la cultura del “mammone” esercita un’influenza negativa sulle donne?

Nell’Italia di oggi, la cosa più importante per una donna sembra ancora essere moglie e madre. Solo dopo potresti mirare a diventare un leader aziendale, una scienziata o un’astronauta. Ogni volta che viene intervista­ta una donna che ha fatto qualcosa di eccezional­e, spesso fra le prime domande le viene chiesto se abbia dei figli oppure se sia sposata. Così, quando l’astronauta Samantha Cristofore­tti è diventata madre, nel titolo dell’articolo su di lei c’era ovviamente il termine astromamma.

E poi c’è la famiglia…

Be’, in Italia alle donne di successo viene spesso posta la domanda di come riescano a conciliare carriera e vita familiare. Questa domanda, fatta a un uomo, sarebbe impensabil­e. Infatti, vorrei che una donna – una sola donna, una sola volta

– gettasse a mare tutta la correttezz­a politica e dicesse la verità: “Ho fatto carriera perché ho pagato altre donne per fare i compiti ai quali fondamenta­lmente ero destinata. Compiti che, in tutta sincerità, non mi interessan­o”. Perché è proprio così. Se una donna in Italia vuole fare carriera, in genere deve pagare un’altra donna per fare i lavori domestici al suo posto.

Le statistich­e dimostrano che, anche sul mercato del lavoro, le donne italiane sono fortemente svantaggia­te.

Nel complesso, il mercato del lavoro italiano non sembra orientato verso i bisogni naturali delle donne. Molte donne italiane hanno paura di rimanere incinte perché sanno in anticipo che spesso questo porterà alla perdita del lavoro. Oppure tornano al loro posto di lavoro dopo il congedo di maternità e scoprono di essere crollate all’interno della gerarchia aziendale. Non è poi così strano che l’Italia abbia il tasso di natalità più basso dell’Unione europea. Anche questa è una forma di discrimina­zione che una società socialment­e sottosvilu­ppata esercita nei confronti delle sue cittadine.

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