Comfort gonfiabile
Mezzo secolo fa debuttava la poltrona BLOW: “imbottita” d’aria, colorata e trasparente, figlia giocosa della cultura pop e di una tecnologia all’avanguardia, segnò una rottura con il design allora imperante. I suoi “padri”? Jonathan De Pas, Donato D’Urbin
Cercansi idee. Era questo il mantra che, sottotraccia, circolava nel mondo del design alla metà degli anni ’60. International style, Good Design, bel design: la corrente culturale del progetto non era certo morta, ma tendeva a ripetersi, a elaborare e rielaborare esperienze già mature. Il mondo stava cambiando radicalmente e i giovani creativi premevano per una discontinuità, per uno strappo a suo modo antiseriale, ma allo stesso tempo democratico. Occorreva del nuovo e il nuovo arrivò, sulla spinta della Pop Art. Prima le utopie di Archigram, e le “follie” di Gufram, poi le allegre provocazioni di Zanotta con la seduta Sacco, quella elevata a icona da Fracchia-Fantozzi, e soprattutto, nel 1967, con la poltrona Blow, espressione e conseguenza di una minirivoluzione culturale e di costume. Per l’epoca un prodotto tutt’altro che facile da realizzare perché di tekné pneumatica s’intendevano in pochi: ma Aurelio Zanotta, patron d’altri tempi, s’impuntò e, in un agosto torrido
WHO’S WHO
Architetti e industrial designer, da sinistra Jonathan De Pas (1932-1991), Paolo Lomazzi (1936), Donato D’Urbino (1935) fondarono lo studio Ddl nel 1966. Loro sono classici del design come la poltrona-sofà Joe (Poltronova), l’appendiabiti Sciangai (Zanotta, Compasso d’Oro nel 1979) e il divano Onda (Zanotta). Alla morte di De Pas, Lomazzi e D’Urbino hanno proseguito l’attività con uno studio a loro nome.
tra mille audaci empirismi, il progetto andò in porto. Tante le sue novità. Era il primo pezzo d’arredamento gonfiabile prodotto industrialmente (nel 1954 Arthur Carrara aveva ideato Inflata
Lamp, una lampada gonfiabile a sospensione, ma era più o meno sperimentale), il primo trasparente e colorato, il primo formato da tubolari di Pvc (e non di neoprene come i materassini da spiaggia) stampati e termosaldati. Esprimeva uno spirito ludico e ironico, anticonformista rispetto a una visione progettuale che, nata nell’anteguerra, risentiva di utopie ormai consumate. Con il piano di seduta molto basso e i plastici tubolari che fungevano d’appoggio al suolo e da schienale, si ispirava ai gommoni nautici e anche al buffo omino Michelin. A disegnarla un terzetto di trentenni scapigliati: Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi (con loro collaborò Carla Scolari). Veniva venduta a prezzi accessibilissimi, sgonfia e riposta in una confezione dall’allure industriale nella quale erano compresi anche il gonfiatore a pedale e un kit per le piccole riparazioni. Poteva essere inserita nell’arredamento domestico con folgoranti effetti “a contrasto” con i mobili esistenti, ma funzionava benissimo anche all’aria aperta, in piscina o in mare. Fu da subito un successo, simbolo giocoso e irriverente di un design alla portata di tutti, «anche se sono soprattutto i ricchi a possederla, in quanto simbolo non di uno status sociale, ma culturale», scrive Bruno Di Marino in Film Oggetto Design. Fu lanciata con una vivace campagna pubblicitaria che la piazzava, usata da seducenti modelle, in luoghi di fascino, non ultimo una scogliera sul mare a enfatizzarne robustezza e resistenza in contrapposizione al suo aspetto quasi etereo. Anche il cinema contribuì a farne un cult. La troviamo in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? diretto da Ettore Scola nel 1968. Interprete del disagio dell’italiano medio di fronte all’irrompere di una modernità che non comprende e gli è estranea, Alberto Sordi ne scaglia nell’aria una versione nera come un grido di dolore e ribellione estremo contro i riti opprimenti della società. Ricompare ne L’amica (1969) di Alberto Lattuada come arredo di rottura nella casa borghese di Lisa e Paolo, a sua volta industrial designer, protagonisti di una deliziosa storia di corna. Un oggetto iconico e per sempre, e che tuttavia definisce lo spirito di un’epoca ben precisa insofferente a regole obsolete. Non per nulla Paolo Lomazzi la chiama tuttora «la nostra bambina». FINE