LA NOTTE COME TETTO
Uno speleologo, uno scalatore, un ricercatore in Antartide. Per vivere a loro basta un riparo e una lanterna per allontanare il buio.
Tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere è un riparo e una lanterna per allontanare il buio
Ci sono case che sembrano stare in piedi solamente nella fantasia.Case fondate sui sogni,le cui pareti esistono solo nello spirito degli uomini e i cui contrafforti affondano nel paesaggio della sfida.Una tenda sui ghiacci himalaiani,un telo di plastica aggrappato alle viscere della Terra, un container di ferro sul plateau antartico: paiono mesti rifugi, eppure i loro abitanti li chiamano «casa», perché tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere è un riparo e una lanterna per allontanare il buio
BILL STONE, MESSICO
«La mia casa è duemila metri sotto la superficie, per ora. Ma il prossimo anno la porterò parecchio più giù». Bill Stone, speleologo texano, nelle sue settantacinque missioni ha trascorso più di due anni sottoterra, passando le notti nella grotta più profonda del mondo, tra le foreste pluviali di Oaxaca, in Messico. Occhi e baffi colore del fango, corpo magro e nodoso. Col tono sfrontato di un esploratore che ha superato ogni record, spiega come per raggiungere «casa» debba strisciare per decine di chilometri lungo tunnel claustrofobici. Scende come una talpa, nel buio, scivolando in fessure così strette che la schiena tocca il soffitto a ogni respiro, e bisogna togliersi il casco per farlo passare di traverso.
«Esplorare quei posti significa abbandonare ogni certezza, cercare l’essenza di ogni cosa, reinventare l’idea stessa dell’abitare». Ancor più degli scalatori, spiega, gli speleologi devono viaggiare con bagagli ridotti all’osso, per gli spazi angusti e perché nell’umidità del sottosuolo ogni grammo trasportato richiede dieci volte il suo peso in sudore: «Ogni giorno, sottoterra, brucio le calorie di un ciclista del Tour de France». Laggiù, ogni oggetto di uso quotidiano subisce una brutale selezione darwiniana:
gli spazzolini da denti hanno perso il manico, le forchette sono rimaste con un solo dente, la biancheria intima viene indossata per settimane. Il rifugio nel quale passa le sue notti è fatto da teli di plastica tesi sopra rocce scelte con cura, protette dalle correnti sotterranee, sospese su un pozzo a duemila metri di profondità. Bill impiega tredici giorni per raggiungere quella casa. Tredici giorni di discesa al buio, tra stalagmiti e pietraie, trascinando cibo liofilizzato, proteine in polvere, corde, bombole d’ossigeno e altre attrezzature, necessarie per continuare l’esplorazione della grotta che tutti chiamano «l’Everest capovolto».
A metà del cammino, sulla riva di una pozza coperta da una volta solforosa, Bill ha l’ultima possibilità di sentire la voce di sua moglie. «Campo base, qui campo quattro, over». Le sue parole, arrochite dalla fatica, si spostano su un cavo rivestito di teflon che corre lungo le pareti. Saranno le ultime scambiate con il mondo prima di superare il confine dell’oblio. Oltre non c’è aiuto né soccorso che possa raggiungerlo. Per risalire dritto in superficie, senza fermarsi mai, impiegherebbe una settimana. Per tornare dalla Luna ci sono voluti tre giorni.
«La speleologia è una partita giocata nel buio su un campo invisibile. Ma un buon esploratore non si sofferma sulla follia della sua sfida». Bill racconta che più scende e più si sente euforico, e che «del buio ti dimentichi in fretta, se non puoi paragonarlo alla luce». Per lui le pareti di roccia, l’oscurità, i venti umidi e impetuosi che corrono tra le gallerie sono una specie di abbraccio; si è sempre sentito a casa laggiù. Da ragazzo era sonnambulo: quando inciampava e cadeva, invece di rialzarsi, strisciava sotto al letto e ci restava fino al mattino. Lì si sentiva meglio, e la grande stanza vuota non gli faceva più paura.
«I tunnel di queste grotte sembrano fatti per me. Hanno esattamente le dimensioni giuste per adattarsi al mio corpo»: per Bill abitare significa trovare un luogo capace di assumere forme che si adattino ai suoi bisogni. Nella semplicità della sua tenda posata sulla roccia umida, alla luce di una fiamma di propano, Bill si allontana da ogni velenosa distrazione del mondo fuori. Perde il senso del tempo e dello spazio, inghiottiti dal buio che quaggiù lo circonda. Su quest’ultima frontiera della Terra, dove nessuno è mai stato prima, ritrova sé stesso, il senso della vita e il significato di casa, che nella sua geografia «è l’unico posto che può aiutarti a non perderti». Un’idea del vivere che appartiene a esseri umani incapaci di arrendersi al destino e alle paure, compresa quella della morte.
TOMEK MACKIEWICZ, PAKISTAN
«Qui non c’è niente e fa un freddo allucinante, tanto vale arrampicare». Gennaio di due anni fa: Tomek Mackiewicz, scalatore polacco, si trovava bloccato da una tempesta di neve al campo base del Nanga Parbat, in Pakistan. Tomek era un tipo dalla battuta pronta, ma quel giorno non scherzava. Raccolse lo zaino e iniziò a camminare nell’inverno himalaiano, verso una vetta che gli alpinisti chiamano Assassina. «Lassù si sentiva felice», mi racconta la moglie Anu. «Diceva che casa sua era ogni luogo dove lasciava qualcosa, e su quella montagna ci ha lasciato la vita. Ha passato gli ultimi giorni da solo in una buca nel ghiaccio, abbracciato dal freddo come piaceva a lui. Tomek ha raggiunto la sua vetta».
Il Nanga Parbat, spiega Anu, era sempre presente tra loro. Nei racconti ai figli, nelle fantasie, nell’ideologia di quell’uomo a cui era toccata una vita ingiusta. L’infanzia povera, l’alcolismo del padre, la dolorosa caduta nella droga; a salvarlo da tutto era stato il silenzio della montagna e lui non l’aveva più lasciata. Per Tomek andare sul Nanga era come tornare a casa. A ottomila metri, dove la mancanza di ossigeno fa vacillare ogni pensiero, lui trovava la pace piantando la tenda o scavando una buca sotto il ghiaccio. Alle pareti livide appendeva la lanterna, scaldava i pasti su un fornello da campo e riposava come un bimbo nel ventre materno. Guardava passare le albe e i tramonti, e quando il vento soffiava a cento chilometri all’ora e il termometro scendeva a meno settanta, chiudeva l’ingresso del suo «ventre» con la neve. Poi ci faceva un buco per respirare e da quello spiava il mondo, bianco come il Paradiso. Poteva restarci giorni sotto la neve, perché per lui non era importante arrivare in fretta.
«“La vetta non è niente”, diceva, “soltanto un mucchio di sassi e ghiaccio, non c’è nulla che ti aspetti lassù”. Salendo nel vento invece rimuginava meglio i pensieri, e trovava un posto nel mondo anche per sé». Quando Tomek tornava da Anu, le raccontava quanto insignificante apparisse ogni cosa umana di fronte alla grandezza delle sue montagne, e quanto questo riconsegnasse una giusta dimensione al suo io e alla sua vita. Forse è proprio questa ricerca di una misura della nostra casa globale, rispetto alla storia e all’universo, l’esigenza che spinge ogni pioniere sulle rive dell’ignoto. Come un italiano che ha appena deciso di passare in Antartide il prossimo inverno.
Per Bill abitare significa trovare un luogo capace di assumere forme che si adattino ai suoi bisogni. Nella semplicità della sua tenda posata sulla roccia umida, alla luce di una fiamma di propano, si allontana da ogni velenosa distrazione del mondo fuori
ALBERTO SALVATI, ANTARTIDE
Alberto Salvati, ricercatore a capo di una missione scientifica in Antartide, vedrà partire in questi giorni i colleghi della base Concordia. Saliranno sull’ultimo volo militare prima che arrivi la notte polare, e assieme a lei i venti a trecento chilometri orari e il freddo che sulla pelle sfiora i cento sotto zero. Saranno lunghi mesi di buio, silenzio e solitudine, perché questo vuol dire inverno nella terra più ostile.
«Somiglia a una nave spaziale, posata con le sue zampe d’acciaio su un pianeta bianco»: Alberto descrive con incantevole serenità la sua casa antartica. «Due torri, unite da un camminamento. Una si chiama Calma, perché ci sono le camere, i laboratori e una sala chirurgica. E l’altra Rumore, perché contiene gli impianti che ci permettono di sopravvivere». Da novembre a febbraio la base può ospitare fino a sessanta ricercatori, ma nel lungo inverno rimangono sì e no in dieci, e niente e nessuno potrà mai raggiungerli. «Per chiedere il sale ai miei vicini, dovrei bussare alla porta dei russi, a 600 chilometri di ghiaccio da qui. O a quella degli americani, a 1.600».
La battuta non minimizza l’angoscia dell’isolamento che lo aspetta, eppure Alberto giura che non vorrebbe essere in nessun altro luogo perché qui, dove la vita è scandita dall’umore dei ghiacci, e nubi e vento sono l’orologio delle giornate, ci si prende cura della casa di tutti noi. Con antenne di fili leggeri come ragnatele, assieme ai suoi colleghi scruta lo spazio in cerca di un possibile futuro. Libera in cielo palloni di lattice gonfi di elio, per studiare l’inquinamento della stratosfera. E nelle carote di ghiaccio che estrae dalle profondità legge il nostro passato. «Da quaggiù l’ uomo non fa più paura. Niente tv, niente radio, nessun inutile rumore del mondo. Niente denaro, niente serrature. E il tempo si dimostra per quello che è: una pura convenzione».
Nell’immensità bianca, ogni azione dell’uomo sembra insignificante. Eppure così non è. Alberto si è innamorato di questo posto perché offre all’essere umano la possibilità di guardarsi da lontano, di rimettere in discussione i suoi modi di vivere. E grazie a uomini come lui, anche noi diventiamo esploratori. Nelle loro case sul confine della finitezza umana ci confrontiamo con l’ignoto, con il destino, con il nostro ego. E insieme a loro superiamo la paura di una notte che già morde il cielo.