LA BOTTEGA DEI RICORDI
Gli anni ’20, la campagna belga, una pagoda e un’artista che ha deciso di invecchiare qui
Questa è una storia di straniamenti, attese e stravaganze. Il tassista che mi accompagna a Edegem, commuter town a una manciata di chilometri da Anversa, è iraniano. Si scusa per il brutto inglese, lancia un paio di improperi agli autisti belgi e poi alza il volume della radio. «È mio fratello quello che canta!», alza le mani per danzare una canzone persiana e usa l’accendino come a un concerto. «È morto cinque anni fa, ma per me è sempre vivo», e mi invita ad ascoltarlo su Spotify.
L’indirizzo che gli ho dato coincide con un cancello di bambù che, tra le casette con le travi a vista uscite da un olio di Brueghel il Vecchio, risulta esotico tanto quanto il mio taxi. L’abitazione è nascosta da un boschetto dove giochi per bambini attendono la bella stagione: una pagoda in stile giapponese rivestita di piastrelle blu, i tetti con gli angoli rialzati, le finestre a bovindo, le colonne rosse. Tra il muschio luccicante della campagna belga, pare atterrata da un pianeta lontano. O infestata dai fantasmi.
Non c’è campanello, telefono alla mia ospite: si scusa, non potrà essere qui prima di quattro ore. Nei dintorni, solo un benzinaio gestito da due ragazzi che mi cedono un sedile e una macchinetta del caffè a gettoni per ripararmi dal freddo.
La casa pagoda di Edegem è stata costruita nel 1929 da un’anziana ebrea appartenente a una famiglia di commercianti di diamanti. Il fratello di Theresia Daverveldt-Coetermans si chiamava Louis ed era il console di Persia. All’inizio del Novecento, molti ricchi costruivano la casa di vacanza in questo quartiere. Theresia, un marito e nessun figlio, aveva acquistato un lotto di terreno anonimo e voleva renderlo memorabile. Erano gli anni Venti: nell’Europa uscita dalla Grande guerra dilagava l’Orientalismo, un’attrazione verso tutto ciò che aveva una parvenza di «Oriente», più un’idea partorita dalle menti di occidentali annoiati che un sincero interesse verso culture diverse. Le abitazioni andavano stipandosi di oggetti «in stile» asiatico, spesso copie o veri e propri falsi. Per non sbagliare, Theresia aveva affidato la propria «extravaganza» a un architetto esperto di art nouveau e chinoiserie.
L’attuale proprietaria attraversa la strada sulla sua bici bianca. Caroline Van den Eynden ha 38 anni, i capelli argentati e fa l’artista. Si scusa, e mi fa entrare nel giardino da un ingresso secondario dove ci accoglie una saetta marrone: «Si chiama Bugatti, come lo scultore italiano Rembrandt Bugatti, fratello di Ettore, il fondatore della casa automobilistica». Bugatti è un bracco ungherese di due anni, e ci salterà intorno per tutto il tempo.
«Sono nata ad Anversa, poi mi sono trasferita da queste parti, perciò questa casa la conoscevo bene. Dopo la morte della signora, nel 1940, ci sono stati altri proprietari, fino a che è finita nelle mani di un ristoratore che la usava per i matrimoni. Avrebbe voluto ampliarla, ma qui tutto è protetto da vincolo paesaggistico».
Le chiedo cosa sa di Theresia: «Non molto. Viveva con due domestiche, che dormivano nelle stanze sul retro, e un autista, che stava al piano superiore del garage. Per se stessa aveva scelto la grande stanza al primo piano, quella col balcone». Infila le chiavi e siamo nel salone, grande come tutta la facciata, uno spazio che ora è studio, salotto, sala da pranzo e stanza dei giochi tutto insieme.
«I soffitti sono la copia di quelli del padiglione giapponese dell’Expo di Parigi del 1925. È l’unica stanza con questo stile, al piano di sopra le camere sono normalissime. Dopo i ristoratori, è rimasta senza acquirenti per 13 anni. E per me e Derek (Biront, oggi suo ex marito, ndr) è stato un bene: alla fine i proprietari hanno dovuto accettare l’offerta che avevamo fatto. Due anni fa è diventata casa nostra».
Entrambi stavano cercando il posto perfetto per il proprio atelier. Per se stessa, Caroline ha adibito il piccolo delizioso padiglione in giardino. Derek, che fa il restauratore di sculture di metallo, sta costruendo sul retro. «Vede i cumuli di terra con quel buco sotto? Sarà il suo atelier sotterraneo. Alla fine verrà tutto ricoperto dal prato». Provo a immaginarlo, un ibrido tra una collina dei Teletubbies e un bunker antiatomico.
In realtà, edificio principale e costruzioni del giardino sono un cantiere a cielo aperto. «Tutto ha bisogno di essere restaurato, gli esterni come gli interni. Porte, finestre, salone e cucina sono ancora quelli originali, e perciò vanno sistemati, così come l’intero impianto elettrico», aggiunge Caroline, che prevede la chiusura dei lavori entro il 2029, «quando festeggeremo i cento anni della casa». E pensare che tra lei e il Giappone non c’era questo
grande amore: «Ci sono stata per lavoro, ma finiva lì. Penso che nemmeno Theresia avesse legami con quel Paese, era lo stile esotico ad attrarre le persone».
È stata proprio l’architettura a farla innamorare: «La mia arte consiste nel creare modellini che riproducono i miei ricordi degli edifici in cui sono stata». Ne prende in mano uno: «Questo è l’appartamento in cui sono cresciuta ad Anversa, in un palazzo di otto piani. Questo invece è ispirato alla mia scuola – femminile, cattolica, con le uniformi e le preghiere: c’erano percorsi tracciati per terra che eravamo obbligate a percorrere in fila indiana».
Da dove nasce la sua arte? «Tutto è iniziato con le scale, metafora della memoria. I ricordi per me non sono suoni o profumi, ma hanno sempre un contesto architetturale. Una finestra, una porta:
«LA MIA ARTE CONSISTE NEL CREARE MODELLINI CHE RIPRODUCONO I RICORDI DEGLI EDIFICI IN CUI SONO STATA. MEMORIA PER ME NON È SUONI O PROFUMI. UNA FINESTRA, UNA PORTA: DI QUESTO È FATTA»
per me i ricordi sono fatti di questo, e ho deciso di usare lo stesso linguaggio per creare». Ha ricordi legati a questa casa? Sorride enigmatica: «Stanno iniziando a costruirsi», e racconta della prima volta in cui è entrata da proprietaria: «Era il 13 aprile, due giorni prima del mio compleanno. Ho subito pensato che qui sarei invecchiata». Poi mi saluta: l’ultima immagine è lei che si infila dentro a una pesante tuta da lavoro e si avvicina a quella che immagino possa essere una piallatrice.
Il sociologo McLuhan diceva che «la casa è la nostra pelle», qualcosa nella quale ci riconosciamo anche se può sembrare distante o marziana. Fa riflettere che, cento anni fa, un’anziana signora avesse deciso di costruirsi un guscio così straniante sebbene pieno di fascino. Fa ancora più effetto, forse, che oggi una giovane donna l’abbia scelto come luogo in cui dare forma tangibile ai propri ricordi. Una casa pagoda nella campagna belga è un mistero degno di un racconto.
Il tassista che mi porta via è cileno. Vive qui da sempre, ma ricorda quando, da bambino, i compagni lo chiamavano «testa nera». Conclude: «So che per tutta la vita sarò straniero ovunque: qui perché non sono biondo, nel Paese dove sono nato perché ho deciso di andarmene».