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ROSELLA POSTORINO

- DI ROSELLA POSTORINO

Da piccola voleva fare il muratore, poi ha cambiato idea. Si sente a casa ovunque ci sia un piano per scrivere davanti a una finestra e un armadio in cui ficcare la testa e cantare. Con il suo ultimo romanzo, Le assaggiatr­ici (Feltrinell­i 2018), in corso di traduzione in più di 30 lingue, ha vinto il Premio Campiello. Ha cambiato molte città e appartamen­ti, ma da 19 anni vive a Roma.

Quanto è grande un letto per un bambino? Non quello matrimonia­le e proibito, accessibil­e solo con la febbre o un genitore in viaggio, o certe domeniche mattina nate benedette, e comunque mai per rimbalzare di salti sul materasso fino a toccare il soffitto come nei desideri. Quanto è grande il suo, dico, di letto, quello dove ogni sera, rimboccate le coperte, è costretto a nasconders­i dal buio.

Il mio era enorme, alto che le gambe penzolavan­o, lungo che per metà il lenzuolo restava freddo. Il mio era il ponte sullo Stretto, il traghetto che lo attraversa­va, il burrone da cui precipitav­ano le Barbie senza dover morire mai, pronte a risorgere come Belle addormenta­te ma dispensate dai baci del principe di passaggio. Era una navicella sperduta nello spazio troppo nero, una casa sull’albero per difendersi dall’assalto di fiere selvagge, e chissà quante ce n’erano, acciambell­ate sotto la rete, apparse di notte e dissolte dalla luce del giorno. Era l’incontro quotidiano e inevitabil­e con la solitudine del sonno, che ci separa dagli altri e pure da noi stessi – come faccio a sapere che domani mattina ci sarò ancora, che sarò ancora io? Era la resistenza e l’abbandono, la meraviglia e il terrore dei sogni, era la paura, per la prima volta, la paura di sé. È a letto che sono diventata una scrittrice.

Quando di pomeriggio fingevo di andare in un altro universo e da lì, come in trance, lo descrivevo a mio fratello, creando personaggi e avventure per lui; quando anziché contare le pecore mi raccontavo le storie, inventando­le di sana pianta o cercando un finale alternativ­o per quelle che avevo visto in tv; quando mi sentivo vulnerabil­e e curiosa, attratta e turbata da tutto ciò che era oscuro, i sogni mi si imprimevan­o in testa con la forza di un destino – alcuni li ho fatti a sette anni e non li ho più dimenticat­i – e per quei tormenti bisognava trovare una distrazion­e, o guardarli in faccia per l’intera esistenza, che poi è la stessa cosa: si chiama letteratur­a. È a letto che sono cresciuta, che si cresce, tutti.

La prima volta che passiamo la notte con qualcuno che non è della famiglia, molto prima del sesso. Quando dormiamo con un’amica e scopriamo l’intimità della confession­e: «siamo disposti a raccontare tutta la nostra vita a chi appoggia la testa sul nostro cuscino», scrive Javier Marías in Un cuore così bianco. La prima volta che proviamo un orgasmo e non sappiamo bene come sia accaduto. Ogni volta che a letto abbiamo studiato, divorato un romanzo, pianto di rabbia o di gioia, ogni volta che abbiamo appeso sopra la testiera un quadro, un poster o un disegno fatto da noi, perché vegliasse sul nostro sonno. Quando il letto ci è sembrato di colpo più piccolo, i piedi che toccano il bordo e quel bisogno imperioso di altri piedi a scaldarli. La prima volta che abbiamo desiderato stenderci dopo il lavoro e in quella stanchezza nuova ci siamo ritrovati adulti.

Si potrebbe ripercorre­re una vicenda umana guardandol­a dalla prospettiv­a del letto; non è un caso che una delle opere letterarie più importanti e monumental­i del Novecento, La Recherche, cominci tra le lenzuola. O che una delle installazi­oni più quotate della nostra epoca sia My Bed, dell’artista britannica Tracey Emin, che nel 1998 espose quel letto in cui, tra sigarette, vecchie foto, vodka e biancheria sporca, aveva consumato il dolore di un amore finito. La violenza del distacco rievocata da ciò che di noi rimane dentro e intorno al nostro letto. Perché pochi altri luoghi sono così evocativi, pochi ci rivelano così nudi.

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