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SE GREGOTTI FOSSE RIMASTO GREGOTTI

- DI PAOLO PORTOGHESI

Ricordare Vittorio Gregotti per me è ricordare due persone diverse, tanto diverse da rendere difficile spiegare la loro coesistenz­a in un unico corpo. Il primo è il caporedatt­ore di Casabella Continuità che conobbi alla fine degli Anni ʼ50 e nei ʼ60, quando dimostrava una grande apertura verso i tentativi della nostra generazion­e di uscire dall’ortodossia modernista. Il secondo è l’architetto che dopo il Sessantott­o si cimenta con la profession­e in grande stile e organizza uno studio capace di raggiunger­e il traguardo impression­ante di più di seicento progetti. Negli stessi anni si attribuisc­e con successo il ruolo di ambasciato­re della cultura architetto­nica italiana, scegliendo amici e avversari con clamorosi riconoscim­enti e dure scomuniche.

Negli Anni ʼ50 Gregotti collabora con Ernesto Nathan Rogers come talent-scout e promuove la pubblicazi­one di progetti che fanno scalpore, alcuni dei quali appartengo­no a quella tendenza che in modo spiccio venne definita Neo-Liberty. Partecipa a una mostra di mobili disegnati, tra gli altri, da Gae Aulenti, Aldo Rossi e Guido Canella, nella quale espone la sua Cavour, definita nel catalogo come «una poltrona per piangere», nella quale la fredda impassibil­ità delle poltrone di acciaio della tradizione razionalis­ta lascia il posto alla morbidezza lineare del legno curvato. Anche le prime opere del gruppo Gregotti rispondono al desiderio di «sottrarsi ai termini di un linguaggio quale è quello che si è formato con la corruzione della tradizione razionalis­ta» per tornare a «narrare, celebrare e commuovere», recuperand­o quella attenzione alla durata degli edifici nel tempo che la cultura d’avanguardi­a aveva ignorato, e sperimenta­ndo un rilancio della decorazion­e.

Presto però si capisce che l’adesione di Gregotti alla tendenza che si andava sviluppand­o in nome di un condiviso «sentimento della storia» era in realtà condiziona­ta dalla preoccupaz­ione di non deludere l’establishm­ent culturale e politico. Dopo un periodo di sperimenta­zione, si orienta all’inizio degli Anni ʼ70 verso il porto sicuro di un linguaggio prudente e riduttivo che assorbe del razionalis­mo la parte purista, classicheg­giante, rinunciand­o alle componenti astratte che ispirerann­o i Five Architects di New York e i decostrutt­ivisti. Si ritroverà così a difendere, da conservato­re, l’ortodossia che da giovane aveva combattuto.

Ho avuto il dono della sua amicizia e molto apprezzato la sua curiosità culturale nel periodo in cui apriva finestre in ogni direzione. Quando nel 1964 presentava con Leonardo Sinisgalli il mio libro Roma Barocca, il tentativo di scrivere una «storia della città»; quando sui fascicoli di Edilizia Moderna esprimeva la straordina­ria capacità di mettere insieme cose diverse, scoprendon­e l’attualità. Gestimmo insieme la rubrica di architettu­ra della rivista Marcatré. Ma quando nel 1980 divenni il suo successore alla direzione del settore Architettu­ra della Biennale, le sue critiche furono tra le più violente e superficia­li, tacciando la mostra della Strada Novissima di «fiera delle vanità, allineata sui problemi del marketing culturale».

Rinunciare alla sincerità per unirsi al coro delle celebrazio­ni post mortem sarebbe una falsità. Al Gregotti teorico rimprovero di aver suggerito, insieme a tante scoperte illuminant­i, quel tipo di rapporto tra architettu­ra e territorio che ha poi legittimat­o il ricorso alla violenza delle «macro-strutture» indifferen­ti alla logica del paesaggio. E allo Studio Gregotti di avere agito proprio nella logica tanto aborrita del marketing culturale, producendo un interminab­ile elenco di architettu­re prevedibil­i, politicame­nte e profession­almente corrette, poco sensibili alla diversità dei luoghi, in cui la vena di generosità del primo Gregotti sembra irrimediab­ilmente perduta. L’esempio tipico è il quartiere della Bicocca, un’occasione unica, e purtroppo sprecata, di «continuare» Milano a partire dalla sua identità storica.

Naturalmen­te nella sua produzione ci sono eccezioni di cui sarebbe ingiusto tacere, e che dimostrano la sua autentica vocazione di architetto fedele al «sentimento della storia». Lo spazio interno del Dipartimen­to di Chimica dell’Università di Palermo, progettato con Gino Pollini. L’intervento delle case popolari alla Giudecca. La più significat­iva delle eccezioni è però il Centro Cultural de Belém a Lisbona, dove la suggestion­e del luogo si riflette in un cauto e misurato inseriment­o, in un dialogo di forme e di materie che fa pensare con nostalgia a cosa sarebbe stata l’architettu­ra di Gregotti, se avesse portato avanti la sua iniziale apertura e curiosità.

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