AD (Italy)

Cino Zucchi

- LA CASA DEI MIEI SOGNI di Cino Zucchi*

Un architetto, dice, sceglie luce, porte e maniglie: il resto è il regno di chi lo abita. Cresciuto in una casa di Luigi Caccia Dominioni, quella in cui vive con la sua «comune» (moglie e 4 figli), progettata da Gustavo e Vito Latis, è arredata dal disordine e dall’indie rock trasmesso da «Radio Cino» (il suo iPod). Casa, amore e musica sono, per dirla con Cohen, le sue tre Sisters of Mercy.

Nel suo saggio L’homme et la coquille (1937), Paul Valéry rifletteva sulla perfezione formale di una conchiglia, ma anche sulla differenza tra l’azione costruttiv­a del mollusco e quella dell’uomo, caratteriz­zata dalla libertà della scelta e quindi dalla possibilit­à del fallimento.

La Xenofora pallidula è una conchiglia che ingloba nella sua struttura tutto ciò che trova sul fondo del mare, come un bricoleur che raccoglie e modifica oggetti per seguire un proprio fine. Un sabato pomeriggio ho concepito su invito di AD una maison des rêves in modo non dissimile da quello che fa questa «pallida portatrice di stranieri». Anche un sogno è infatti un assemblagg­io libero – talvolta incoerente o surreale – di immagini, storie e situazioni vissute nella veglia, e lo stesso fa un progetto di architettu­ra che seleziona e combina tra loro memorie e intuizioni, disponendo oggetti conosciuti in sequenze inedite.

La casa così immaginata potrebbe essere posata in uno degli angoli più segreti e da me amati di Milano, a fianco del piccolo rondò tra via Necchi e via San Pio V con vista sul giardino Ucelli: un luogo al contempo urbano e verde, antico e moderno, centrale e contemplat­ivo. La casa prende la forma di uno spazio centrale a spirale, illuminato di giorno da lucernari a shed e di notte dalle lampade Toio di Achille Castiglion­i – a loro volta meraviglio­so esempio di «bricolage» –, che raccoglie sul suo perimetro frammenti di luoghi domestici incontrati negli anni nei viaggi di studio e diletto.

Contro l’eccessivo purismo di alcune «case di architetti» – ma anche contro la chirurgia estetica di chi cerca di donare una «tradizione» a chi non ce l’ha – il manifesto «accidentis­mo» (termine rubato a Josef Frank) di questa operazione di collage spaziale trova la sua unità all’interno dello spazio centrale libero e indifferen­ziato: un «loft arrotolato su se stesso» che parte dalla vetrata sul giardino e converge verso un centro intimo dove ci si può abbandonar­e sulla Papa Bear Chair di Hans Wegner e rivedere per la centesima volta il film preferito (il mio è Rebecca - La prima moglie di Alfred Hitchcock) sulla television­e Black St201 di Marco Zanuso e Richard Sapper.

Diceva ancora Valéry: «Nella vita moderna mi piace ciò che potrebbe permettere di condurre più piacevolme­nte e facilmente una vita non moderna». Accettare la dimensione protettiva e talvolta sentimenta­le della casa può essere oggi un antidoto efficace contro le improbabil­i futurologi­e dei miei colleghi in cerca di consenso mediatico.

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 ??  ?? *Architetto, accademico, autore di scritti su urbanistic­a, storia e teoria dell’architettu­ra.
*Architetto, accademico, autore di scritti su urbanistic­a, storia e teoria dell’architettu­ra.

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