AD (Italy)

UN TAVOLO ALLA FINE DEL MONDO

Su un’isola in mezzo a un lago argentino una casa di pietra, ferro e legno grezzo è il rifugio di uno chef fuori dagli schemi. E il suo ristorante per pochi. Anzi, pochissimi

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Per andare a trovare il dio del fuoco bisogna affrontare un viaggio impegnativ­o. Mettere in conto almeno nove ore di volo da una qualsiasi grande città americana, più cinque di strada sterrata, più un’ora di barca a motore sul lago La Plata nella foresta andina. Poi bisogna essere attrezzati. Non si sfida il clima della Patagonia in abbigliame­nto finto boscaiolo di marca. Qui il vento ha un altro ritmo, l’acqua un altro gelo, le vette del Cerro El Gorro non hanno il profilo familiare di quelle di Courchevel. Dopo l’ultima curva del gommone compare il rifugio di Francis Mallmann, La Isla, sede del ristorante più remoto ed esclusivo del mondo: La Soplada, «raffica» in spagnolo.

Sollevata su corte palafitte, la casa poggia su un piancito di legno curvilineo in scenografi­co contrasto con i muri grigio-ferro animati da tetti sfalsati e ritmati dalle finestre da cui a ogni ora del giorno va in scena il grande spettacolo della natura andina. Sulla porta compare il padrone di casa e: «Un bicchiere di vino?» è il suo benvenuto. All’interno,

SOLLEVATA SU CORTE PALAFITTE, LA CASA POGGIA SU UN PIANCITO DI LEGNO IN CONTRASTO CON I MURI GRIGIO-FERRO ANIMATI DA TETTI SFALSATI E RITMATI DALLE FINESTRE DA CUI A OGNI ORA DEL GIORNO VA IN SCENA LO SPETTACOLO DELLA NATURA ANDINA

la teatralità si fa intima. Grandi divani, abat-jour, piumini, piumoni, tessuti colorati raccolti durante i viaggi di scoperta culinaria, in quelli di cultura in Francia e dove lo porta la sua agenda di cuoco famoso con dodici ristoranti sparsi nel mondo. Alle pareti, i libri degli autori prediletti e quelli scritti da lui, la chitarra, le cassette dei cantanti preferiti, un backgammon, attrezzi, indumenti sparsi: il disordine «vitale» che tanto piace a questo ex hippie che non è molto cambiato da quando è approdato qui da cuoco quarantenn­e, stanco delle bellurie della gastronomi­a francese, alla ricerca delle sue radici di ragazzo argentino emigrato in Patagonia.

Qui ha capito che il suo futuro era conoscere e padroneggi­are il linguaggio della cucina scandita dal fuoco in tutte le sue sfumature: dal curanto di pietre bollenti sepolte in una buca alla bestia impalata e cotta intera ai vegetali stufati sotto la cenere. Se a questo si aggiungono i tour de main e il rigore appresi in Francia, ecco uno chef fuoriclass­e e fuori ordinanza, prediletto dalla più rarefatta clientela

LA SOPLADA RUOTA INTORNO ALLA FIAMMA: DENTRO, CAMINI E VECCHIE STUFE DI FERRO E GHISA; FUORI, IL FORNO D’ARGILLA, IL CEPPO E L’ASCIA, LE GRIGLIE, LE PIASTRE

Non che nel suo eremo Mallmann sottoponga gli ospiti ai disagi di un soggiorno sauvage. A seconda delle occasioni, la scenografi­a della tavola segue un preciso spartito. I pranzi nella foresta o in riva al lago giocano al «selvaggio elegante» con tavolacci, terraglie colorate, posate di ferro, maestranze gitane in abbigliame­nto rustico. Sulle griglie cuociono costate con datteri grigliati, churrasco di tonno con patate all’aglio, agnello in salsa salmuera, aragosta alla plancha con capesante. Per le cene in casa la coreografi­a diventa parigina: tovaglie candide, argenti, le ceramiche di Astier de Villatte, cristalli, fiori, champagne (Krug), grandi vini. Trasfigura­ti dall’incontro col fuoco arrivano: spigola cilena in salsa di mandorle, tortilla di gamberi con avocado, cozze al vino rosso in salsa di cipolle, zabaglione grigliato con frutti di bosco.

Poche volte all’anno lo chef si concede a lezioni di vita-cucina per pochi ospiti. Gli apprendist­i devono contemplar­e un falò per tre ore, scriverne un saggio, leggerlo ai compagni; la sera in luogo dei segnaposto troveranno un libro scelto dal padrone di casa che, forse, dopo cena, leggerà poesie, suonerà la chitarra, citerà Pound. Brindando alla lussuosa assenza di connession­e.

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