Open space,una fine annunciata
«Non direi che non ce l’aspettassimo. Piuttosto, è stata sorprendente la velocità con cui è avvenuto». Così Kermit Baker, ricercatore all’Università di Harvard e capo economista dell’American Institute of Architects, commentava con il New York Times lo stravolgimento nelle tendenze dell’home design seguito allo scoppio della pandemia. Tra le evidenze, rilevate da un sondaggio condotto su 425 studi di progettazione statunitensi, la richiesta diffusa da parte dei clienti di spazi flessibili.
«La priorità, anche in Italia, è compartimentare. Limitare il campo visivo da ciò che succede intorno, per aumentare la concentrazione», conferma Adelaide Testa, designer dello studio Marcante Testa. È il declino dell’open space, una ridefinizione del senso del privilegio: «Ambitissimo è lo sguardo verso l’esterno. Un accesso ai dintorni della finestra che già era un tema ricorrente per Gio Ponti e Umberto Riva». Guadagnano centralità zone prima periferiche: «L’ingresso, che fa da filtro. Si depositano gli abiti, si lasciano le borse, si ricevono pacchi, cibo, spesa». Si riscopre il gusto della tattilità, gesto limitato fuori dalle mura domestiche: «Perciò si scelgono materiali che danno un senso di calore. Piacciono i tendaggi, i tessuti, i rivestimenti».
Le tesi degli studenti del corso triennale in Interior design dello Ied di Torino, di cui Testa è coordinatrice, hanno indagato il passaggio «dal sentirsi a casa» al «restare a casa», che tutti abbiamo sperimentato: «La vera sfida è trasformare l’obbligo in piacere. Ripensare gli spazi, per renderli il più possibile desiderabili».