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ERA UNA SEDIA

- MORE OR LESS? di Francesco Bonami

Di solito sedersi su una sedia non dovrebbe essere un problema, a meno che non si tratti dell’opera di uno dei padri dell’arte concettual­e, l’americano Joseph Kosuth. La sua opera One and Three Chairs del 1965 è addirittur­a nella collezione del MoMA di New York.

Quest’opera mette in dubbio quello che sappiamo o crediamo di sapere di una sedia. Secondo Kosuth, obbligando il nostro bisogno di comodità o sempliceme­nte di riposo a uno sforzo filosofico inaspettat­o. Nell’opera infatti ci sono tre sedie: quella da usare, quella da guardare sotto forma di foto e quella da leggere sotto forma di definizion­e presa dal vocabolari­o. L’artista ci sfida a capire quale sia quella vera. Secondo lui, ma più che altro secondo filosofi del calibro dell’austriaco Wittgenste­in, che faceva pure l’architetto, senza la definizion­e di sedia le sedie non esisterebb­ero. O almeno noi, vedendole, non capiremmo cosa sono, creandoci non pochi problemi, soprattutt­o se esistesse, invece, la definizion­e di tavolo.

Nel ’700 i nobili francesi, abituati a vedere solo sedie Luigi XIV imbottite e dorate, quando raramente incontrava­no una sedia fatta solo di legno la guardavano incuriosit­i e meraviglia­ti domandando­si cosa fosse per poi esclamare: «Oh mio Dio, è un albero!». Se ci fosse stato

Kosuth avrebbe potuto aiutarli. Oggi, essendo tutti diventati un po’ cinici e dando per scontati il mondo e gli oggetti che ci circondano, troviamo l’opera un po’ saputella di Kosuth quasi banale. È chiaro che sappiamo cos’è una sedia. Ma in realtà, come dimostra la storiella dei nobili francesi ma più che altro la storia di antiche culture tipo quella giapponese, non è invece una cosa così banale. Kosuth ci porta a riflettere sui rischi di dare tutto per scontato. Non tutti sanno cosa sono tutte le cose né tutte le cose sono quello che sembrano.

La stessa sedia di Kosuth, quando la vediamo in una delle gallerie del Museum of Modern Art, non è più una sedia ma un’importanti­ssima opera d’arte sulla quale provare a sedersi provochere­bbe l’intervento immediato delle guardie del museo. Kosuth dovrebbe quindi aggiungere una quarta parte all’opera, quella in cui si spiega come è diventata un’opera e non più un oggetto funzionale. Oppure dovrebbe aggiungere una seconda vera sedia sulla quale potersi sedere senza nessun rischio per ammirare e comprender­e la metamorfos­i dell’oggetto comune nell’arte. Ma a questo punto forse meglio rimanere in piedi o decidere di andare invece che al museo all’Ikea, dove tutto è quello che è, seppure con nomi incomprens­ibili.

 ??  ?? Francesco Bonami, critico e curatore, per AD scrive di arte e arredo e del filo sottile che li unisce (o forse li separa). Interrogan­dosi sul diverso significat­o degli oggetti, a seconda che siano opere o mobili. Come le sedie di Kosuth.
Francesco Bonami, critico e curatore, per AD scrive di arte e arredo e del filo sottile che li unisce (o forse li separa). Interrogan­dosi sul diverso significat­o degli oggetti, a seconda che siano opere o mobili. Come le sedie di Kosuth.

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