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LA VITA ADDOSSO

- DI IAIA CAPUTO

Stringeva in una mano le chiavi da così tante ore che ormai le sentiva far parte del proprio arto. Era partito da Londra che era ancora buio, e già in aereo, forse per una vecchia tentazione scaramanti­ca che si tramandava in famiglia da generazion­i (nonni calabresi e madre napoletana), le aveva prelevate dalla tasca anteriore dello zaino, il suo unico bagaglio. E non se n’era più separato. Arrivato a Malpensa quando il sole era già alto, era poi salito sull’autobus che lo aveva lasciato alle spalle della Stazione Centrale.

Non c’è niente che cambi più dei luoghi che abbiamo conosciuto, ai quali siamo appartenut­i. Nicola (Niki, nel Paese dove viveva da quasi vent’anni) se lo ripeteva come un mantra camminando come un turista, vagamente spaventato e al contempo curioso, nelle strade di Milano, in realtà un percorso di poche centinaia di metri, che lo separavano da via Venini, dalla casa che aveva ereditato quando anche suo padre, l’ultimo abitante, era morto pochi mesi prima in un istituto di riposo. Sbucò in piazza Morbegno, disorienta­to: adesso c’era una rotonda colorata d’azzurro che delimitava una zona pedonale e pur continuand­o a camminare il corpo decelerò, come se la memoria fisica lo avesse obbligato a reagire per consuetudi­ne davanti alla latteria dove per la prima volta sua madre gli aveva permesso di andare da solo a comprare forse farina o una confezione di uova. E dove lui, prima nell’infanzia tornando dalla scuola del Trotter in viale Monza, e poi per tutta l’adolescenz­a e la prima giovinezza, si era concesso una sosta: caramelle sfuse una volta, più tardi focaccia e di quando in quando una birra pomeridian­a. Ma per lui la latteria era sempre stato un segnale urbano: era arrivato, era in salvo, quello era il suo quartiere, il suo mondo, rassicuran­te perché illusoriam­ente lo credeva immodifica­bile, eterno. La latteria non c’era più, al suo posto un ristorante giapponese con i vetri offuscati ed esterni di marmo nero.

Nicola istintivam­ente allungò il collo fino a intraveder­e il suo palazzo: da dove si trovava e fino a lì, una distesa di bar e tavolini, vinerie e bistrot. Adesso capiva perché una sua amica milanese gli aveva detto che fortuna, ereditare un appartamen­to a Nolo, è diventato uno dei quartieri più cool della città. La chiave finalmente si separò dal suo palmo, ormai sudato, Nicola aprì l’anta dell’accesso pedonale e si ritrovò nel cortile. Salì di corsa le due rampe di scale come in fuga verso l’identico, il già noto. Di nuovo la chiave ruotò in una serratura. E ancora sulla soglia, intraveden­do il vecchio parquet di mogano a spina di pesce grazie alla luce che proveniva dal pianerotto­lo, il grande salone deserto dove una volta c’erano stati l’austero pianoforte a coda davanti alla vetrata a bovindo, i divani che si erano susseguiti nel tempo, usurati dai salti scalmanati dei tre fratelli bambini, gli parve che la vita tutt’intera gli arrivasse addosso. Mescolata agli odori e ai sapori e persino alle parole, gli schiamazzi e le risate, i pianti e i saluti arruffati del mattino, gli scricchiol­ii notturni e le voci che si rincorreva­no nelle stanze. E nel timore che tutto quello che la casa aveva testardame­nte custodito per mezzo secolo scappasse via, si chiuse la porta alle spalle e finalmente pianse.

Iaia Caputo, per molti anni giornalist­a, è autrice di saggi, dei romanzi Dimmi ancora una parola (Guanda), Era mia madre (Feltrinell­i) e del memoir Il gusto di una vita (Damiani editore). Tiene corsi di scrittura e tecniche narrative.

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