COME UN ROMANZO
«Lei sa che i luoghi mentali con il passare degli anni contano assai di più di quelli reali?», mi domandò quella donna, una psicologa che mi aveva ascoltato con pazienza per tutto il tempo, in quell’ambulatorio freddo dove ero andato per chiedere aiuto.
«Lei ha avuto solo una crisi di panico. Non stava male, è la sua mente che costruisce troppe fantasie».
Non mi sono mai sentito fantasioso. Ma appena dicevo a qualcuno che il mio mestiere era quello dello scrittore, prima o poi venivo investito dalle fantasie degli altri. Come gli ipocondriaci che appena trovano un medico, a una cena, oppure sul sedile di fronte del treno, cominciano a elencare tutti i malanni, passati, presenti e futuri: quelli peggiori, perché quelli temuti.
«È un po’ come mettere ordine in casa. La casa è il posto dove si raccolgono le cose, il posto da cui vuoi fuggire, quello in cui vuoi rientrare appena puoi. Quello che vuoi cambiare, o altrimenti quello che vuoi lasciare come è sempre stato, e guai a spostare un oggetto. Ci sono le case tue, le case che hai abitato. Ci sono le case che hai visto, e persino quelle che non hai visto. Dove non sei mai entrato. E ci passi davanti, e osservi le finestre e ti chiedi cosa c’è oltre l’inquadratura di quel muro, che mostra mezzo quadro, un vaso di fiori, un frammento di tavolo. La luce azzurrina della televisione che illumina uno specchio che non riflette quanto dovrebbe. Lei dovrebbe imparare a non aver paura del futuro», concluse sorridendo.
I luoghi mentali sono innanzi tutto le case. E spesso sono case che attraversi, che hanno la stessa consistenza dei sogni. Case che ricordi. Case che tornano nei libri, a pezzi, come il vestito di Arlecchino: una stanza è quella dei nonni, quella in fondo al corridoio di quando eri piccolo, un’altra l’hai vista passando con il treno, da una finestra accesa. E avevi fatto caso a pochi dettagli e a un’ombra appena dietro il vetro. Un corridoio viene da un vecchio film, la luce di un soggiorno era di una pensione con le volte a crociera e il mattone vivo. E gli oggetti, i mobili, li assembli, tutti assieme, come si fa quando confondi i romanzi che hai letto, quelli che hai scritto, quelli che devi ancora scrivere.
«Lei ha mai sognato case che non ha mai visto?». «Sogno continuamente case che non conosco», risposi: «quando mi sveglio mi chiedo dove siano, e da chi mi arrivano. Forse le persone che non ci sono più ci raccontano di case che avremmo potuto vivere. E ce le mandano. Come una fotografia».
«Le arreda lei?», mi chiese con curiosità.
«No, le lascio così. Se posso, se lo trovo, mi porto via anche un libro, o un oggetto. Ma la mattina, quando mi sveglio, non so mai dove sia finito».