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IL PALAZZO RINASCE

È l’ultimo edificio nobiliare costruito a Roma, a cavallo tra Otto e Novecento. Museo fino al 2017, poi chiuso, oggi riapre le sue porte come spazio espositivo e polo culturale

- Testo di Beatrice Zamponi

Il Museo d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Palazzo Brancaccio, a Roma, era uno di quei musei raffinati e silenziosi, fuori dai circuiti abituali, dove si andava volentieri per riflettere. Camminando tra le sale di quella che era stata la dimora del principe napoletano Salvatore Brancaccio e della consorte, l’ereditiera americana Mary Elizabeth Field, si veniva ammantati da esotica bellezza tra cariatidi, ninfei e Buddha danzanti. Improvvisa­mente nel 2017 la collezione fu smantellat­a e accorpata a quella del Museo Preistoric­o Etnografic­o Pigorini, e il palazzo chiuso. Oggi, grazie alla sinergia tra la galleria Contempora­ry Cluster, che qui stabilisce la sua nuova sede, e Spazio Field, che prende in eredità piano nobile e giardini, l’intera dimora ottocentes­ca torna a vivere, diventando un laboratori­o per le arti che crede nell’intelligen­za collettiva mettendo a sistema varie realtà creative attraverso una vasta

programmaz­ione. A segnare la riapertura la personale di Sara Ricciardi, nello spazio chiamato “l’Africano”, che era l’archivio del museo, mai aperto prima al pubblico. Per l’occasione, la giovane e poliedrica designer ha prodotto 38 pezzi unici in collaboraz­ione con la storica ditta Ceramiche Rometti, creando la serie di vasi Semina.

«Mesi fa, mentre piangevo scrivendo mie riflession­i», racconta l’artista, «ho improvvisa­mente realizzato che la parola “pianto” porta in sé due significat­i opposti ma complement­ari. È il participio passato del verbo piangere, quindi qualcosa di ormai già trascorso che ci lasciamo alle spalle, ma è anche la prima persona singolare del verbo piantare, quindi qualcosa che nasce nel presente. In quel momento ho capito che versando lacrime creavo concime per me stessa».

Il lavoro vuole indagare questo doppio tema: la sofferenza che però porta bellezza, l’atto di difenderci insieme alla capacità di lanciarci verso una fioritura. Una dinamica che appartiene anche ai semi scelti dalla designer come fulcro dell’elaborato progetto. «Quando il seme è nel terreno», spiega, «deve al contempo difendersi e nascere; per farlo indossa corazze, armature che in uno sforzo supremo, attraversa­ndo il dolore, lacera per permettere alla vita di fare il suo corso».

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 ??  ?? sopra La sala detta “degli specchi” è la più antica di tutto il palazzo, e oggi fa parte dello Spazio Field. pagina precedente Lo spazio detto “l’Africano”: quando l’edificio era un museo qui c’erano gli archivi.
sopra La sala detta “degli specchi” è la più antica di tutto il palazzo, e oggi fa parte dello Spazio Field. pagina precedente Lo spazio detto “l’Africano”: quando l’edificio era un museo qui c’erano gli archivi.

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