L' era glaciale
Non si può più percorrere con sci e pelli il ghiacciaio Balteo così come si presentava 130.000 anni fa, nel momento della sua massima espansione. Però si può percorrere ciò che è rimasto della sua presenza, l’Anfiteatro Morenico di Ivrea. E una bici gravel è il mezzo ideale per questo viaggio nel tempo.
Circa un milione di anni fa il clima subì un deciso cambiamento: le precipitazioni si fecero più numerose e si distribuirono con maggiore regolarità lungo l’arco dell’anno, mentre le temperature medie estive subirono un deciso abbassamento. Il mutamento climatico provocò la nascita e l’espansione dei ghiacciai alpini che, durante la fase del loro massimo sviluppo, colmavano quasi completamente le valli, lasciando emergere solo le cime più elevate. Le lingue glaciali spesse alcune centinaia di metri fluivano lungo le valli, approfondendole e allungandole, spingendosi in alcuni casi fino allo sbocco in pianura. Qui depositavano il materiale detritico prelevato a monte, edificando imponenti anfiteatri morenici. È un sintetico riassunto della storia geomorfologica dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea, la zona del Canavese in cui vivo. Approfondisco. Leggo che l’unico ambiente che oggi può lontanamente ricordare quella situazione è visibile in certe zone dell’Alaska, con i rilievi completamente ricoperti di neve e ghiaccio e solo le vette rocciose più alte ad emergere dal bianco.
Alaska? Neve? Ghiaccio?
Per uno sciatore queste parole, stampate su un volantino informativo, sono come benzina sul fuoco, altroché era glaciale. Montagne ricoperte di ghiaccio e neve… Alaska. Dove l’ho già letto? Mi torna in mente un passaggio della biografia del freerider americano Doug Coombs, il primo ad aver esplorato, sci ai piedi e dall’alto verso il basso dopo aver raggiunto le cime con l’elicottero, le montagne inviolate attorno a Thompson Pass, in Alaska. «L’elicottero si alzò in volo, sorvolando una montagna strabiliante dietro l’altra. Prendete i Teton, le Rocky Mountains e la Sierra, mischiate tutto e otterrete le Chugach Mountains dell’Alaska, una catena incredibilmente vasta dove si è registrato il record per la quantità di neve caduta in un anno negli USA - quasi venticinque metri. Qui tempeste apocalittiche provenienti dal Golfo dell’Alaska si incagliano nei rilievi, scaricando neve umida che ricopre i pendii più ripidi come sciroppo denso. Un fronte di aria gelida si riversa dall’entroterra trasformando quello sciroppo in zucchero polveroso. Era per solcare questo ben di Dio con le proprie solette che gli amanti dello sci lasciavano tutto quello che avevano, soldi e affetti, dormivano in trune di neve e vivevano arrabattandosi ai limiti della sussistenza. Sciare questa powder era meglio del sesso, creava dipendenza più della droga e valeva ogni singolo
centesimo speso per viaggiare fino alla parte più remota degli Stati Uniti, dove la vita era spartana e l’aria densa di un’energia selvaggia che ti faceva pensare che nulla fosse impossibile».
Ho raccontato questa storia al mio amico Danilo. Ci siamo guardati per un attimo, ognuno viaggiando con la fantasia indietro nel tempo. Forse solo quelli come noi che amano tanto sciare in montagna aperta riescono a trovare un fascino così travolgente nell’idea di vallate ricoperte di ghiaccio e neve. Le nostre vallate, per di più. Entrambi, in quel momento, abbiamo immaginato il Canavese tutto bianco, sotto una coltre di materia bianca di qualche centinaio di metri, a filo con il margine superiore della maestosa Serra d’Ivrea. Una specie di Alaska, ancora di più, dati i rilievi anche maggiori dell’arco alpino occidentale rispetto alle Rockies. In fondo viviamo proprio in una delle zone più caratteristiche, da questo punto di vista.
«Chi, attraversate le Alpi giunge per la prima volta nella zona d’Ivrea, pensa di non avere mai visto delle vere morene prima», scrisse nel 1909 uno studioso tedesco, arrivato in questo territorio per studiarne la conformazione. Io l’ho scoperto con una ricerca su Google, mica lo sapevo prima. E non sapevo nemmeno tante altre cose di questo straordinario territorio, che ho poi imparato approfondendo la questione.
Danilo ormai lo conosco bene. Stava pensando la stessa cosa che pensavo io. Voleva sciarlo questo ghiacciaio, voleva tornare indietro di 130.000
anni, al momento di massima espansione, per affondare nel ghiaccio le punte dei ramponi e delle piccozze all’altezza del lago di Viverone e risalire, tra formazioni ghiacciate e detriti di roccia, fino al culmine della Serra. Poi mettere le pelli e andare avanti, sfidando il dislivello, i crepacci, il vento e le condizioni meteo proibitive. Raggiungere le zone più alte, per poi rilassarsi finalmente, spingendo lo sguardo tutto attorno, osservando la pianura padana laggiù aprirsi oltre il ghiaccio. E infine, come Doug Coombs sul Dimond Peak, calzare gli sci e lasciarsi andare giù nella powder, per chilometri e chilometri, planando su tutta la base della vallata per poi imboccare i ripidi canali che riportano alla base del ghiacciaio. La sciata della vita, di una vita fa. Nelle giornate serene e fredde, con il cielo terso e il Monviso laggiù che pare una sentinella, te la immagini davvero quell’atmosfera glaciale. Poi ti guardi in giro e di quel paesaggio non c’è più nulla. O meglio, non c’è più il ghiaccio, tra un po’ non ci sarà nemmeno più sopra i 3.000 metri, purtroppo, ma rimane indelebile l’impronta lasciata dal suo passaggio. Rimane solo quello.
«La grande fiumana di ghiaccio proveniente dall’attuale Valle d’Aosta esercitò una immane forza espansiva sul cono di deiezione che si era formato allo sbocco della valle, scaricando nella pianura un’enorme massa di pietrame, ciottoli e sabbie. Le misure del ghiacciaio erano gigantesche. Una lunghezza di 120 chilometri, un’altezza di 800 metri, una superficie di oltre 500 chilometri quadrati, un diametro di 30 chilometri
«Passiamo vicicnoovear lstCoiruy carun, un curioso campanile romanico della chiesa di San Martino di Paerno, un paese che si è spopolato ed è sparito nel 1700».
e una circonferenza di 110 chilometri che ne fanno ancora oggi una tra le unità geomorfologiche di questo tipo meglio conservate al mondo. La morena laterale sinistra dell'antico ghiacciaio, la Serra di Ivrea, è la più grande formazione di questo genere esistente in Europa e si dirige con un percorso quasi rettilineo verso sud-est (pendenza media in cresta 2,7%) per circa 20 chilometri, sfrangiandosi poi nelle alture che circondano il lago di Viverone. Nella sua corsa a valle il ghiacciaio Balteo levigò e arrotondò i fianchi delle montagne che si trovavano sul suo percorso trasportandone i materiali di corrosione, i quali formarono un incredibile miscuglio di fango, sabbia, ciottoli e massi enormi, che trasportato dalla massa glaciale si depose sul fronte e sui lati del ghiacciaio formando il maestoso Anfiteatro Morenico di Ivrea».
Wow!
E lì ci viene un’idea. Allora si può percorrere. Qualcosa è rimasto. Una traccia, uno scheletro esiste!
Danilo ed io sappiamo anche come fare.
Una bici gravel è quanto di più vicino possa esserci allo spirito dello scialpinismo freetouring, dove il concetto di esplorazione viaggia di pari passo con stile, estetica e pulizia della traccia. Una gravel non ha la potenza della mountain bike, non ha la leggerezza e la velocità della bici da strada, però ti permette di muoverti su tutti i terreni dell’Anfiteatro, tra strade bianche attorno a fiumi e laghi e tracce nei boschi, collegando le zone di depressione pianeggiante - la pancia del ghiacciaio che fu - con i margini più elevati della morena, composta dai detriti. Scivolare sulla neve dell'era glaciale non è come mordere lo sterrato con pneumatici da 38, ma questa è la nostra possibilità. E, a dirla tutta, è una possibilità di gran lusso.
Non c'è stato bisogno di troppa pianificazione, ci siamo messi al lavoro in fretta per tracciare un anello su strada sterrata coerente con lo stile gravel e che toccasse tutti i punti significativi dell'Anfiteatro. Ognuno ha iniziato a pedalare nella sua zona, lui attorno a Settimo Vittone, dove la Valle d’Aosta incontra il Canavese e dove ha sede il suo negozio XL Mountain, io attorno a Piverone dove invece c’è il quartier generale della casa editrice. Tra scorribande notturne - sai che pedalare nei boschi di notte è un'esperienza da sciamano? -, tanti errori di percorso, qualche deviazione in mezzo ai campi di granoturco o ravanage in mezzo ai rovi, il percorso ha preso forma, seppur non quella definitiva. Quando è stato il momento di tirare le somme, eravamo stupefatti dai posti che avevamo scoperto, abbiamo trascorso ore a raccontarci di quella traccia nel bosco che improvvisamente diventava panoramica o della qualità di uno sterrato lungo un naviglio dimenticato. La sensazione di perdersi a pochi chilometri da casa, magari infilando quel bivio che passando ogni giorno con la bici da strada si vede inerpicarsi nei boschi, è qualcosa di sempre più raro. Eppure è proprio così, come quando si scollina un panettone bianco con le pelli, pensando di iniziare la discesa nella valle a fianco, e invece si apre davanti agli occhi uno scenario inaspettato, tutto da scoprire e da tracciare.
Gravel e scialpinismo, ghiaccio, polvere e fango. Pensando che quel fango, magari, è lì perché l’ha trascinato il ghiacciaio Balteo da chissà dove, su nelle valli.
Poi abbiamo finalmente deciso di mettere
insieme i pezzi, di provarci. Lo abbiamo fatto un mercoledì mattina di inizio novembre, con la temperatura vicina allo zero, il cielo sereno, il Monviso (manco a dirlo) laggiù come una sentinella silenziosa e la corona di montagne tutto attorno imbiancate dalla prima, abbondante, nevicata di stagione. Non poteva, davvero, andare diversamente. La luce, qui, quando le montagne sono cariche di neve, è diversa. Tutto assume una tonalità che si può apprezzare pochi giorni l’anno. Una volta doveva essere sempre così.
Immaginavamo di trovarci qui imbacuccati nei nostri piumini, con gli sci ben fissati allo zaino, gli scarponi in modalità walk e tutta l’attrezzatura con noi, invece eravamo in sella alle nostre Grail con le sacche piene di tutto quello che poteva servirci e delle espressioni in volto un po’ preoccupate. Ce la faremo? Si parte. Lasciamo Piverone lungo la Francigena, in direzione di Palazzo e Bollengo, terreni mossi dall’ultimissima spinta del ghiacciaio, dopo che il grosso si era già ritirato. Si inizia presto a salire e a togliersi il freddo umido di dosso, le rampe della Serra mordono subito i polpacci. Passiamo vicino al Ciucarun, un curioso campanile romanico della chiesa di San Martino di Paerno, un paese che si è spopolato ed è sparito nel 1700, mentre lui, il suo campanile, è rimasto da solo a presidio di una vasta zona pianeggiante. Si tratta di una delle tante terrazze di kame dell’Anfiteatro, come sono definiti i ripiani che si formavano dal deposito delle acque di scolo che poi via via si riassorbivano. Sono zone fertili, che si trovano
«Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese: Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta, gli alberi, le chiese; e il mio sogno di pace si protese da quel rifugio luminoso ed alto» [Guido Gozzano - La signorina Felicita]
su tutta la morena, e spesso vengono coltivate anche in mezzo ai boschi. Poi su, faticando un bel po’, verso la dorsale della Serra. Lassù si può raggiungere il single track in cresta, tanto caro ai biker, o salire in mezzo ai boschi per un tratto di asfalto non trafficato, tra luci e ombre di una fitta boscaglia antica. Qua e là si vedono residui di insediamenti, questa era una zona abitata, di grande importanza strategica per i Salassi, la cazzutissima popolazione canavesana che fu sottomessa dai Romani solo nel 350 a.C. dopo numerosi tentativi e gravi perdite di uomini. Ecco Andrate, una formidabile terrazza sul Canavese, ma anche su tutto il Piemonte in una giornata così, tappa selfie obbligata. Ancora di più San Giacomo, che si raggiunge con un tiro ripido che mette a dura prova la preparazione tardo autunnale, di noi ciclisti non esattamente professionisti. E via in falsopiano verso Trovinasse, per poi scendere in picchiata sul versante orografico di destra della bassa Valle d’Aosta, verso Cornaley e Settimo su asfalto, per godersi la velocità della discesa, e come filano le gravel anche su strada! L’aria fredda sul volto ci fa immaginare di tirare curve in neve fredda, polverosa, vergine, sul versante che non prende luce, con gli sluff tutto attorno ad accompagnarci nella discesa.
Abbiamo percorso cinquanta chilometri, belli impegnativi, con panorami mozzafiato. Siamo stanchi, ma nessuno dei due osa dirlo. Saltiamo la Dora Baltea, la fiancheggiamo in direzione Ivrea lungo gli argini e tra i campi fino a Fiorano, dove si attacca la spalla sinistra dell’Anfiteatro, quella che si appoggia alla terminale della Valchiusella. È uno dei tratti più antichi della Morena insieme alla Serra, uno di quelli che non è stato spazzato dai successivi cicli di glaciazione che hanno coinvolto il letto di avanzamento dei ghiacci. Si sale nei boschi, soffiando, faticando più di quanto pensassimo, ma tutto attorno è bellissimo e la bici va su agile come una moto da trial. Si scollina a Lugnacco e senza nemmeno tirare il fiato via ancora tra castagni, querce e noccioli fino a Brosso. Il percorso ci porta a scendere su Traversella, attraversare il Chiusella, arrampicarci (che ripido, mannaggia) in direzione della Bossola, ma solo fino a Pian Benecchio - per non sconfinare troppo in terreno da mtb e portage - per poi iniziare a scendere e buttarci su sterrato verso Rueglio. Qui possiamo tirare il fiato. Le energie iniziano a mancare, ci consola il pensiero che non incontreremo più tratti così tosti ma siamo consapevoli di non essere nemmeno a metà della traccia che avevamo ipotizzato. Non c’è tempo per le esitazioni: giù veloci in discesa ed eccoci di nuovo in pianura, pronti a percorrere una decina di chilometri tra boschi e campi, su strade fangose, vista la stagione, alternate a brevi tratti di asfalto su strade secondarie, ed ecco rialzarsi i rilievi morenici, a partire da Agliè, dove non ci siamo fatti mancare una sosta selfie davanti al meraviglioso palazzo ducale, residenza estiva dei Savoia. Per scollinare ci siamo arrampicati sulla morena di Vialfrè, anche qui alternando strappi di salita con incredibili pianori coltivati. Su questi prati, numerosi giorni l’anno, capita di vedere decine di falchi appollaiati tra l’erba. Li vedi alzarsi in volo come fossero corvi al tuo passaggio e ti domandi che cosa li abbia attirati a terra, tra l’erba brulla autunnale, loro così abituati a volare in alto. Sembra un regalo per noi, per incitarci a proseguire: pedalare con i falchiche ci volano attorno.
«Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande». [Adriano Olivetti]
Prossimo obiettivo il lago di Candia (via Cuceglio, Montalenghe, Orio e Barone), eccezionale da circumnavigare spingendo la bici su sterrati che nulla hanno da invidiare alla Toscana. Di strada ne abbiamo già fatta tantissima, l’anello sembra legarsi in modo quasi naturale con un continuo di saliscendi dolci. Ci interroghiamo spesso su cosa sia veramente adatto al gravel e cosa sia invece un po’ troppo spinto, regno più della mountain bike che del gravel. In fondo questo progetto è ancora work in progress e ci sarà tanto da fare, l’importante era buttare giù una traccia credibile e coerente.
Dal lago di Candia ci spingiamo verso Mazzè, salutando il borgo medievale, il coreografico castello e filando giù verso le chiuse della Dora
«Ivrea la bella che le rosse torri specchia sognando a la cerulea Dora nel largo seno, fosca intorno è l'ombra di re Arduino» [Giosuè Carducci]
Baltea. Lì, lungo un meraviglioso naviglio, pedaliamo su terreno gravel deluxe per almeno dieci chilometri, costeggiando Moncrivello e Maglione, ci portiamo alla base della morena su cui troneggia il castello di Masino, riportato ai fasti che furono dalla recente ristrutturazione del FAI. Saliamo, già belli avvelenati nelle gambe e spinti solo dall’entusiasmo di arrivare sulla terrazza con ancora sufficiente luce e - anche se ufficialmente non si potrebbe - lungo la strepitosa salita delle carrozze; attraversiamo la parte esterna dei giardini del castello godendo di una vista sull’arco alpino senza eguali. Ma ormai inizia ad imbrunire. La stagione è avanzata, possiamo solo immaginare la bellezza di questo posto a primavera inoltrata o in una lunga serata estiva. Durante le ricognizioni delle settimane scorse, quando abbiamo scattato le foto del servizio qui a Masino, ad est abbiamo notato dei rilievi bianchi emergere dalla foschia: sono il Cengalo, il Badile e il Disgrazia. Una meraviglia, per noi sciatori ancora di più, una botta di vita e una scarica di adrenalina per proseguire.
E allora avanti verso Cossano, quindi un taglio ancora su stupende strade in terra e ghiaia verso il lago di Viverone, il principale specchio d’acqua rimasto dal ritiro del grande ghiacciaio Balteo. È buio, procediamo con le luci accese, ma vogliamo completare il nostro giro. Siamo vicini ai 200 chilometri e le forze ci hanno abbandonati da ore.
È solo l’entusiasmo a tenerci in sella. L’andatura ormai è blanda, l’attenzione cala, ci sono pozzanghere, qualche pietra e radici a cui prestare attenzione. Risaliamo da Cavaglià verso Roppolo, poi attacchiamo la Francigena in direzione di Piverone, il cielo è sereno e la luna piena ci accompagna, il lago di Viverone torna a farsi vedere nel punto più basso dell’Anfiteatro.
Superiamo i ruderi del Gesiun, entriamo in Piverone come se avessimo appena vinto la Parigi Roubaix. Ma ci siamo solo noi, oltre a qualche passante che ci guarda un po’ stranito.