Six days in London
Poco dopo le 10 di sera di sabato 12 dicembre 1896, il costante rumorio di un affollatissimo Madison Square Garden si trasformò in un boato fragoroso. Teddy Hale aveva appena conquistato la Sei Giorni di New York, completando 3079,806 chilometri dopo 142 ore di corsa non-stop.
Le cronache locali esaltarono il successo di una manifestazione che, per quanto monotona, aveva saputo esaltare un pubblico famelico di intrattenimento e di imprese. La folla aveva continuato ad accalcarsi senza pause, tanto che negli ultimi giorni gli organizzatori ne approfittarono per aumentare il prezzo di ingresso, senza che la cosa fermasse la caccia al biglietto. In quella giornata conclusiva al Madison Square Garden si contavano 15.000 spettatori, raddoppiando la capienza prevista per l'impianto. Le cronache locali però non riportano soltanto gli aspetti trionfali, ma anche l'impietosa descrizione del vincitore al termine di una simile impresa: «Hale aveva l'aria di un fantasma, il viso bianco come un cadavere e gli occhi, di una fissità terribile, sembrava fossero rientrati nel cranio». Mentre gli altri partecipanti si andavano via via ritirando per collasso o allucinazioni, Hale aveva continuato a pedalare per oltre 10 miglia. Minacciava di non fermarsi finché gli organizzatori non gli avessero concesso il letto di piume che gli era stato promesso. Quel suo pedalare lungo il crinale che divide stanchezza e follia fece preoccupare non poco medici e autorità municipali,
tanto che due anni più tardi si arrivò alla più clamorosa delle decisioni: le Sei Giorni non si sarebbero più potute disputare in quel modo, troppo era il rischio per gli atleti. Per non essere costretti a ridurre il programma da 24 a 12 ore, gli organizzatori si inventarono una soluzione geniale: le corse si sarebbero disputate a coppie. Non è dato sapere se Teddy Hale abbia avuto o meno il suo letto di piume, ma dalle visioni di quelle prime Sei Giorni di fine secolo nacque un formato di corsa unico e leggendario.
La storia delle Sei Giorni è piena di leggende, di imprese e tragedie in pista, di accordi sottobanco, di sfide a poker, fughe d'amore, concerti più o meno improvvisati a centro pista. Soprattutto di pubblico entusiasta, trascinato da quella stessa fame di intrattenimento dei primi spettatori americani. La storia delle Sei Giorni ha attraversato tutto il Novecento a cavallo tra sport e spettacolo. Coppi, Van Steenbergen, Sercu, Merckx, Moser, Martinello, Zabel, Viviani, Cavendish... la lista dei campioni del ciclismo diventati più grandi grazie (anche) alle Sei Giorni è lunga. Così come la storia dei sold out di velodromi e palazzetti in oltre cento città del mondo: Parigi, Gent, Berlino, Zurigo, Rotterdam, Brema, Grenoble, Amsterdam, Monaco, Bruxelles... e naturalmente Milano, che nel 1980 raccolse al Palasport di San Siro 103.588 spettatori. Da una città all'altra un manipolo di corridori, agenti, massaggiatori, meccanici e semplici showmen portavano in giro per l'Europa uno spettacolo unico, come un circo su due ruote. In ogni velodromo una sfida, un aneddoto e una vicenda differente. Non vi è seigiornista al mondo che non abbia qualcosa da raccontare sulle sue avventure. Tom Simpson amava ricordare di quella volta in cui a Parigi riuscì a riposarsi mandando a pedalare un meccanico che gli assomigliava molto, ma fu ben presto smascherato per via del suo pessimo francese. I colleghi di Danny Clarke, pirata australiano delle piste amatissimo dal pubblico per le sue esibizioni canore sul palco insieme alla band di turno, ne ricordano le incursioni notturne ad abbassare le selle degli avversari per ostacolarli. Altri racconti si perdono nella leggenda. Come la caccia più lunga di sempre: l'attacco che gli svizzeri Hans Knecht e Ferdi Kübler lanciarono nel '47 a Parigi, innescando una bagarre che si protrasse dalle 14 alle 22. Meno fantasiosa ma altrettanto leggendaria fu invece un'esibizione a centro pista alla Sei Giorni di Milano del 1981, con ospite una giovane artista di nome Cicciolina. Un ordinario balletto tramutatosi presto in uno spogliarello in prima serata, con i funzionari del Palasport a inseguire l'artista sul palco gettandole addosso i cappotti per coprirla. In pista o intorno, alle Sei Giorni lo spettacolo da raccontare non è mai mancato.
La natura ibrida è il punto di forza di una Sei Giorni. Sport, spettacolo e intrattenimento creano da sempre una miscela in grado di attirare l'appassionato di ciclismo tanto quanto il curioso, le famiglie e i party-animals. Alle Sei Giorni si può andare per vedere una corsa ma anche solo per bere in compagnia. Parenti e amici dei corridori locali hanno l'occasione di fare il tifo da vicino ripetutamente, gli amatori possono cogliere nel dettaglio i trucchi da replicare alla successiva uscita in velodromo, i genitori ne approfittano per regalare uno spettacolo indimenticabili ai figli, con la speranza nemmeno troppo nascosta di avviarli così al ciclismo. Eppure, questo scenario ideale si è nel tempo affievolito, fino a rendere il concetto stesso di Sei Giorni un qualcosa di antico, riferito a un ciclismo che fu, ad un'epoca forse non eroica ma indubbiamente passata. La formula di gara si è trasformata profondamente col trascorrere dei decenni: dalle 24 ore delle origini agli attuali programmi serali, incentrati prevalentemente sulle americane, cui si alternano altre discipline altrettanto spettacolari come corse a punti, eliminazioni, scratch, derny, giri lanciati... disputate talvolta
in coppia e altre singolarmente. Ma nonostante le mutazioni, le Sei Giorni sembravano aver ormai imboccato un declino ormai irreversibile, testimoniato da un calendario via via più ristretto. Dopo le grandi capitali, che già avevano salutato i propri eventi negli anni '80, l'ultimo decennio ha visto chiudere persino Dortmund, Monaco, Grenoble, Amsterdam e Zurigo. In Italia dopo l'effimero rilancio di Milano a fine '90, sono rimaste soltanto la saltuaria kermesse di Torino e la travolgente passione di Fiorenzuola d'Arda, con la 23a edizione già programmata per il prossimo mese di luglio.
Eppure, ogni crisi ha una soluzione, e anche le Sei Giorni sono finalmente pronte ad uscire da questa fase buia, attraverso due ricette abituali: innovazione e persistenza. L'inverno delle Sei Giorni è cominciato seguendo esattamente queste due strade: due modelli e due storie completamente diverse, che segnano insieme la strada – anzi la pista – da seguire per salvare e rilanciare la più antica delle competizioni ciclistiche.
Parlare di ciclismo su pista oggi significa inevitabilmente guardare alla Gran Bretagna, luogo di riferimento per risultati, pratica, programmazione. È una storia lunga quella della pista britannica, che risale almeno in parte agli effetti del divieto di gareggiare su strada, rimasto in vigore in Gran Bretagna per tutta la prima metà del Novecento. Il risultato fu un fiorire di velodromi, molti dei quali ancora in uso nonostante i regolamenti moderni che li considererebbero obsoleti. È proprio Londra la sede della prima sfida assimilabile a una Sei Giorni nella storia: l'anno è il 1868, le biciclette sono ancora le penny-farthing, bicicli dotati di un'enorme ruota anteriore. La pista di Wembley ospita una Sei Giorni quasi ogni anno sino al 1980, stagione in cui anche in Gran Bretagna giunge l'oblio. Non definitivo, però, perché il rilancio del ciclismo su pista comincia presto e con un obiettivo chiaro: le Olimpiadi di Londra 2012. Per i Giochi di casa viene costruito un centro ciclistico invidiato da tutto il mondo, e in mezzo al Lee Valley VeloPark, tra circuiti per mountain bike e BMX, svetta The Pringle, il velodromo a forma di patatina fritta grazie al quale la storia delle Sei Giorni sta scoprendo una nuova pagina.
Nel 2015 Londra è tornata ad abbracciare la sua Sei Giorni all'interno del parco olimpico. A rilanciare il progetto è stata la Madison Group, società
organizzatrice che ha voluto ripensarne il concetto in ottica moderna. James Durbin, l'amministratore delegato di Madison Sports, spiega che l'intento è sempre stato quello di «rilanciare l'amato formato dandogli un aspetto nuovo, che combinasse la corsa classica con un intrattenimento accattivante. Ma le Sei Giorni saranno sempre un omaggio a un'epoca d'oro del ciclismo: è importante salvarle ed educare il pubblico su questa storia. Fargli capire perché ci sono ancora le cabine per i corridori a centro pista, anche se non dormono più lì». E dentro al velodromo il nuovo approccio si coglie immediatamente: la pista è colorata da luci e loghi animati, il dj alterna per tutta la sera brani scelti apposta per ogni prova, le presentazioni avvengono su un palco con musica a palla e luci intermittenti, in tanti momenti sembra più di trovarsi in un club anziché in velodromo. È una forma diversa di festa applicata al ciclismo. La differenza la colgono bene i membri della Beefeater Band, instancabili animatori dei tapponi di montagna del Tour ma semplici spettatori a Londra: «Al Tour è tutta una questione di attesa: stai lì dal mattino per vedere 15/20 minuti di corsa. Qui la festa segue la corsa tutta la sera, la vedi crescere, l'atmosfera è elettrica».
La novità portata da Madison non si limita al contesto, ma anche al programma. A Londra le gare sono corte, il programma si chiude prima delle 23, tutto va in diretta tv. Il risultato è che la gara non ha un attimo di respiro. «Più è veloce, più si divertono pubblico e corridori», commenta Magnus Bäckstedt, il vincitore della Roubaix del 2004, aggirandosi a centro pista. Un'impressione condivisa anche da Elia Viviani, l'uomo dalla bici d'oro: «La gara diventa durissima, più di un mondiale. Perché sali su e fai due ore a 120/130 pedalate al minuto per sei sere di fila. È una gara di altissimo livello, vi inviterei a salire». L'iridato di Rio quest'anno è tornato a Londra, in una città che ama tantissimo ma in un
Nel 1878 a Londra un certo David Stanton dichiarò per scommessa di poter pedalare per 1000 miglia in sei giorni. Il giornale Sporting Life accettò la sfida e mise in palio £100. Alla London's Agricultural Hall davanti a una folla in visibilio Stanton vinse la sua scommessa in soli 5 giorni.
velodromo che gli riporta ricordi infelici, quelli di un mondiale e di un'olimpiade sfumati in due giri di pista. «Sono emozioni forti. È bello rivedere il villaggio dove stavo alle Olimpiadi, ma all'ingresso del velodromo il magone è arrivato. Forse la cosa migliore è tornare per la Sei Giorni, perché in un ambiente simile è impossibile non divertirsi. E il pubblico inglese è affezionato a me dopo gli anni in Sky, la Sei Giorni sta cambiando il mio rapporto con questo velodromo, specie se dovessi vincerla».
Divertirsi resta il primo scopo di tutti a una Sei Giorni, pubblico e corridori, ma per i secondi c'è di più. C'è il naturale desiderio di vincere, in prove che una volta qualcuno sussurrava fossero sovente combinate ma mai facili per nessuno, e c'è l'obiettivo di costruire una relazione. Perché durante una Sei Giorni la pista diventa la sede di un esperimento sociale, il territorio di un rapporto di coppia. Gli abbinamenti delle kermesse sono stabiliti dagli organizzatori, con un occhio di riguardo rispetto ai desideri dei ciclisti. «Una volta – racconta il veterano Iljo Keisse – c'erano coppie fisse, come Martinello/Villa o Risi/Betschart, che facevano tutta la stagione. Ora ogni volta c'è una nuova combinazione. Per i ciclisti è più difficile, e anche il pubblico si affeziona meno». Viviani ad esempio a Londra ha voluto correre con Simone Consonni, ricreando la coppia titolare della nazionale per le prossime Olimpiadi: «Abbiamo capito che c'è ancora molto lavoro da fare, e una Sei Giorni è il contesto ideale per creare l'intesa». È necessario un feeling per correre su pista, qualcosa che torna utile in ogni competizione ma che solo l'esercizio ripetuto in velodromo può dare. L'intesa sui cambi nella coppia, o quella più improvvisata con i guidatori di derny, figure quasi mitologiche del ciclismo su pista che animano le riunioni spingendosi a tutta velocità. Con i corridori il rapporto è fatto di Oh! (rallenta) e Alé! (accelera), ma è con il pubblico che i piloti di
Elia Viviani voleva vincere, per un velocista non c'è cosa più divertente di una vittoria. La magia di una Sei Giorni sta tutta in quello scatto finale, che si ripete da oltre un secolo. «Tutti sperimentano quel momento di vittoria o sconfitta contemporaneamente e tutta questa serie di emozioni convive nello stesso istante».
derny si esaltano. Un vocabolario fatto di accelerate rumorose, di gesti con le braccia a chiamare la ola sugli spalti, di smorfie e danze a centro pista. Se le Sei Giorni sono un circo, i piloti dei derny sono la più genuina incarnazione delle famiglie circensi, non a caso si tratta di un mestiere ereditario, come conferma Ron Zijlard, figlio e nipote di pacer, che di mestiere lavora al catering di famiglia ma che appena può scappa in velodromo. «Sono sempre pronto per una Sei Giorni», ammette con un sorriso che sintetizza passione e voglia di divertirsi.
La Sei Giorni è un esperimento sociale, un gioco delle coppie aperto a triangoli e tradimenti. In ogni giornata in pista c'è spazio per più competizioni. Al programma ufficiale si affiancano omnium femminili, competizioni giovanili o paralimpiche, in alcuni casi – come a Londra – un torneo riservato agli sprinter con protagonisti di primordine. È un gioco in cui è fondamentale l'improvvisazione, la capacità di rimodellare il programma in corso d'opera quando una caduta o un rallentamento fanno saltare le tabelle di marcia, talvolta anche di scombinare le coppie. Elia Viviani sostiene che ci vogliano almeno un paio di giorni per formare l'intesa in una coppia; al suo concittadino Michele Scartezzini è capitato di dover cambiare compagno alla terza sera della Sei Giorni di Gent. Due infortuni diversi, due corridori spaiati, una nuova coppia che si crea. La fortuna per Scartezzini è stata l'aver trovato nel nuovo compagno un veterano della pista e un vecchio amico, Moreno De Pauw, col quale il feeling era già nato. Quello che Scartezzini non poteva aspettarsi era di accompagnare De Pauw nella sua ultima corsa, culminata con un giro di pista attraverso un tunnel di bici alzate dagli avversari: «Mi emoziona, proprio perché siamo buoni amici. Quando ho saputo che era il suo ultimo anno mi è dispiaciuto, e immaginavo che l'ultima sarebbe stata in casa. Moreno qui ha un'intera curva di tifosi, e alle Sei Giorni il pubblico si sente, soprattutto in Belgio, soprattutto a Gent. È una festa assurda».
La festa assurda avviene ogni mese di novembre, quando il circo della pista si ritrova nel capoluogo delle Fiandre Orientali, in uno dei velodromi più celebri al mondo: 't Kuipke. Da fuori un anonimo palazzone grigio squadrato, dentro una pista/catino di soli 166 metri, che viene aperta per una sola settimana all'anno: quella della festa. Se la Sei Giorni di Londra rappresenta l'approccio nuovo a questa disciplina, quella di Gent è la persistenza della tradizione. Dal 1922 il Kuipke fa registrare ogni anno il tutto esaurito, senza avvertire crisi. Seimila persone che si accaparrano i biglietti con mesi di anticipo e che ogni sera riempiono il velodromo, soprattutto a centro pista. Perché i fattori che rendono unica la Zesdaagse di Gent sono diversi: la tradizione fiamminga, la storia gloriosa, la pista corta e velocissima, ma ciò che spicca è soprattutto il pubblico.
La storia delle Sei Giorni è piena di leggende, di imprese e tragedie in pista, di accordi sottobanco, di sfide a poker, fughe d'amore, concerti più o meno improvvisati a centro pista.