La classica del nord più a sud del mondo
Un po’ di storia.
Se lo sterrato è entrato prepotentemente nel ciclismo professionistico odierno, il merito è di Giancarlo Brocci. Dieci anni dopo aver ideato l’Eroica, la Federazione Ciclistica Italiana e la Regione Toscana gli fanno capire che scommetterebbero volentieri su un evento del genere pensato però per i corridori professionisti. Brocci, che come fossero ingredienti per una miscela sopraffina non aspetta altro che la possibilità di fondere Chianti e ciclismo, presenta il progetto. L’idea passa. Partono le ricognizioni sul percorso: Daniele Bennati, Paolo Alberati e Fabrizio Ravanelli (esatto, quel Ravanelli, l’ex-calciatore) pedalano con Brocci che li segue in macchina.
Il potere di quell’idea si è fatta corsa e ha trasformato la Strade Bianche, in poco più di dieci anni, in un appuntamento fisso di inizio stagione per i corridori più forti del mondo. Qui si sfidano atleti di ogni genere come solo a volte accade nel resto della stagione: virtuosi delle corse a tappe, dominatori delle pietre del Nord, cavalieri delle Ardenne, classicomani di ogni razza ed estrazione. Diverse tipologie di pedalatori richiamati da un sapiente lavoro di marketing, dal fascino di una corsa che si differenzia dai soliti percorsi e che valorizza il patrimonio culturale e la tutela dei territori senesi.
In Piazza del Campo non ha mai esultato un carneade: Kolobnev che aprì le danze in quello che oramai è un lontano 2007, ha medaglie mondiali e piazzamenti nelle grandi classiche, Lövkvist è un nome minore, ma ha indossato anche la maglia rosa, Iglinskij aggiunse la Liegi-BastogneLiegi 2012 (beffando Nibali sul traguardo di Ans) al successo nella Strade Bianche 2010. Moreno Moser vittorioso nel 2013, sembrava una dei giuramenti più sinceri fatti al ciclismo italiano, un po’ come Tiesj Benoot promesso sposo del ciclismo belga, corridore a tutto tondo che sul traguardo di Siena lo scorso anno ha conquistato la prima e finora unica gemma della sua carriera. Qui hanno vinto anche grandi campioni. Del mondo, come Gilbert nel 2011, come Štybar nel 2015 e come Kwiatkowski due volte. Fabian Cancellara invece si erge su tutti con tre successi e alla vigilia dell’edizione 2017 gli è stato dedicato uno dei passaggi decisivi: quello di Monte Sante Marie. Tra cent’anni verrà ricordato alla stregua di un pioniere, anche se in quel caso non saremo noi a scriverlo.
I centottantaquattro chilometri in programma in questa edizione 2019 sono i medesimi della precedente. Sessantatré, spalmati in undici tratti, sono invece i chilometri di strada bianca: il 34% della corsa è una sfida a mani nude, un terno al lotto, una valvola di sfogo. Una contesa nella sabbia e nella polvere, su e giù per le crete senesi, in un paesaggio lunare che si infila tra balze e biancane. Perché viene organizzato tutto questo? Perché lo sport a Siena si spoglia di
La strada è alternanza di grigio asfalto e accecante sterrato bianco battuto. La sabbia che riempie i polmoni si deposita a bordo strada dove case in mattoni sembrano Golem a protezione dei corridori.
tutti gli accessori e si mostra per quello che dovrebbe essere: un gioco. Il divertimento è svincolato da qualsiasi forma di successo, il tempo che passa si misura con i muscoli che si sfibrano, lo spazio è la strada e la strada una tela bianca sulla quale buttare fuori la propria creatività. L’imprevisto è la norma, l’uomo svestito e senza supporti esterni sui quali contare, riscopre istinti che credeva sopiti.
Il sole, in mattinata, ha lottato e vinto contro le nuvole, e pioggia e fango, protagoniste l’anno prima, diventano così solo un ricordo buono per immagini epiche da tramandare ai posteri. L’edizione numero tredici della Strade Bianche si presenta indossando l’abito primaverile, con un cielo azzurro macchiato da chiazze bianche che sembrano panna. I corridori, affiancati l’uno all’altro, sono guardati a vista dalle mura secolari della Fortezza Medicea e si gettano, subito dopo il via, come un organismo unicellulare, verso una gara che in pochi anni ha fatto storia. La Strade Bianche è fresca, ma ha già una sua tradizione, che è quella di esplodere sul tratto di Monte Sante Marie. Davanti, da diversi chilometri c’è Diego Rosa, ragazzo solitario che scarica dubbi e incertezze sui pedali, un giovane Adso da Melk che cerca la verità lungo gli sterrati toscani. Prova a tenere a bada un plotone che conta i danni e si riduce a plotoncino. Rosa è il superstite di una discendenza di fuggitivi con storie e visioni da tramandare: con lui c’era Nico Denz, ultimo a cedere di un gruppetto di oltraggiosi, e i francesi Vincent, nel cui nome non c’è il proprio destino, e Geniez; tutti e quattro hanno provato a farsi beffa di quei sentieri di sabbia e argilla battuti da ruote appartenute a moto, auto e biciclette.
Nel gruppo principale qualcuno fa uno scatto e dietro di lui qualcun’altro si nasconde dietro a una nuvola di polvere. I corridori, ora sfilacciati come muscoli rotti dalla fatica, passano tra distese di campi verdi e gialli, come quadri dipinti da un pittore folle. Wellens smuove la sabbia, sembra un colpo di vento; Van Avermaet invece, vestito d’arancione, è come una tempesta. Dietro di lui si accodano altre facce, altri visi che sputano e bestemmiano, mandano improperi come se su quelle strade Cecco Angiolieri si fosse impossessato di loro. Niente è più effimero dell’aspetto esteriore, ma in una gara, i corridori si valutano per quello che mostrano dietro maschere che non potranno nasconderli in eterno. Nel gruppo che si forma a inseguire l’italiano del Team Sky si vedono facce conosciute, difficili da confondere nonostante nuvoloni di polvere da tempesta nel deserto: ci sono van Aert e Van Avermaet, Štybar che digrigna i denti e Alaphilippe che morde il freno, c’è Lampaert dal viso tagliato e spigoloso, Lutsenko con i lineamenti a mandorla e il suo compagno Fuglsang, con la faccia da bambino. C’è il duo Wellens-Benoot a rappresentare la lotteria di stato belga e a scommettere su un’altra vittoria, c’è Skujins che ha i connotati del sottovalutato; c’è Bettiol che fa una smorfia per i crampi e salta per aria, pedala così bene però che in questa stagione di sicuro farà un passo avanti nella sua eterna giovinezza.
Allo scollinamento mancano meno di cinquanta chilometri all’arrivo: Rosa, in maglia Sky, lì davanti sembra un condannato ai lavori forzati. La sabbia dipinge sul suo viso una linea ben definita, la pedalata si fa più dura, i sensi amplificati. Perde progressivamente vantaggio, due auto lo superano come un semplice cicloturista e mentre scende in sicurezza evitando qualche buca, saltella sulla bici come una pulce al circo.
La strada è alternanza di grigio asfalto e accecante sterrato bianco battuto. La sabbia che riempie i polmoni si deposita a bordo strada dove case in mattoni sembrano Golem a protezione dei corridori. A 36 chilometri dall’arrivo, Rosa termina la sua pena, il gruppetto dei migliori, ora ulteriormente frazionato, è un viscido organismo senza pietà e lo inghiotte.
C’è un punto in cui questa corsa, disegnata in maniera sopraffina, si addormenta, prima del grande risveglio dello strappo di Montaperti. È un tratto di asfalto e strade più larghe che si infila dentro distese increspate che sembrano onde di mare verde e dove i cipressi sono barche ormeggiate. Curvoni e ampie carreggiate sono un corpo avulso a una corsa che si innesca lungo sottili linee bianche e grigie. In questo tratto da dietro qualcuno prova a rientrare, c’è persino Nibali, brillante per essere a questo punto della stagione – ma con la testa verso altri obiettivi – c’è Canola che sarà il migliore degli italiani al traguardo, c’è Schachmann nato a Berlino e Kuznetsov nato a Togliatti: allungano e cercano di riportarsi sui battistrada. È il preludio alla battaglia di Montaperti.
Proprio su quel tratto, Fuglsang, il cui celeste Astana è diventato colore della polvere, apre il gas: van Aert si accuccia alla sua ruota, Alaphilippe è lesto, dribbla gli avversari, alcuni dei quali stantuffano stanchi come vecchi macchinari in una fabbrica dismessa. I tre vanno via, un ex biker, un ex ciclocrossista e uno che invece del ciclocross ne fa ogni stagione una ragione di vita.
Il belga si stacca sul penultimo settore di sterrato: quello di Colle Pinzuto. La pancia e la gola sono oramai piene di polvere che si mischia al vapore di una giornata primaverile. Fuglsang guida leggero sulla creta, accelera nel tratto più duro, passa in mezzo a due ali di folla che ripara i corridori da uliveti verdi mimetici e messi in fila come pattuglie militari. Alaphilippe risponde, siamo circa a meno diciotto dal traguardo e se ne vanno in due. Nei chilometri successivi van Aert rientra, ancora una volta la sua testa va più forte delle sue gambe: «Non avevo nessuna cazzo di scelta - afferma testuale a fine gara - stavo galleggiando tra i due gruppi, meglio rientrare davanti che farmi riprendere da quelli dietro. Due volte su due sul podio in questa corsa, non me lo sarei aspettato, adoro correre qui e tornerò per vincere». Il finale è un thriller che si completa sotto lo sguardo della Torre del Mangia. Alaphilippe gioca le sue carte e a trecentocinquanta metri dal traguardo, dopo aver fatto sfogare prima van Aert, che si stacca e finirà terzo, e poi Fuglsang, parte: è il suo trionfo.
Al termine di una corsa così il vincitore può esclamare: sono stato il più forte. Non il più veloce, il più adatto, il più scaltro: il più forte. Colui che ha dato alle sensazioni gambe solide con le quali scavare un solco, colui che ha capito che il coraggio è preceduto da un istante di paura che atterrisce.
Come quando van Aert prova a tenere alto il ritmo o Fuglsang prova a spezzargli le gambe nel tratto più ripido. Greg Van Avermaet ogni anno tra i favoriti, viene ancora una volta respinto e sarà sesto preceduto anche da Štybar e Benoot: «Non ho rimpianti, oggi ha vinto il più forte corridore in circolazione». È il suo attestato di stima a Julian Alaphilippe che a sua volta ne dedica uno alle Strade Bianche: «Ho fatto una buona gara, sono stato bravo e fortunato, vincere qui è qualcosa di incredibile». Ha ragione.