alvento

Tutto il resto è noia

- Di Stefano Dragonetti

Ricordi di biciclette e di un’infanzia a Cesenatico

Sulla canna della bicicletta porto le amicizie vere, quelle vecchie, solide. Vinco per me e so che è come se vincessero loro. E se sono sconfitto, sono sconfitti anche loro. Ho buona memoria. Ricordo di quando ci si andava a sedere davanti al mare, in fondo al Porto Canale, e ognuno tirava fuori i suoi sogni

Io me la ricordo bene Cesenatico. Ci andavo sempre al mare, d’estate, con la mia famiglia. Mi ricordo il Porto Canale, le barche storiche con le vele decorate gialle e rosse tanto belle che sembravano stendardi, nel primo tratto, e poi man mano che si usciva verso il mare la fila dei pescherecc­i tutti bianchi e azzurri con il nome, quasi sempre di donna, scritto sulle murate striate dalle colate rugginose, gli anelli neri delle vecchie gomme d’auto usate come parabordi, la torretta con il radar Furuno, gli argani a poppa e in coperta l’ammasso di reti, cime, catene e attrezzatu­re varie. Mi ricordo il vecchio Mercato del Pesce, sempre in centro al paese, con il suo chiacchier­iccio, il suo odore inconfondi­bile e il pavimento di mattonelle chiare sempre bagnate e scivolose. Mi ricordo i chioschi che vendevano la piadina per strada, tutti uguali, di legno verniciato a strisce bianche e azzurre, o bianche e rosse, o bianche e verdi.

Mi ricordo di averla girata in lungo e in largo in bicicletta Cesenatico, quando finalmente riuscii a raggiunger­e la sella della bicicletta di mio padre, che era una vecchia bicicletta da uomo, color grigio ferro, con il portapacch­i e il cestino per metterci la spesa, il giornale, il pesce comprato al mercato o la tanica dell’acqua riempita alla fontana, perché l’acqua che usciva dal rubinetto non era un granché per cucinare. Quando andavamo a Cesenatico mio padre la bicicletta non se la portava dietro, ma la spediva. E la bicicletta arrivava per conto suo, con il treno, e c’era questo piccolo rito in cui si andava tutti insieme alla Stazione a ritirarla, così come si sarebbe andati ad accogliere un amico o un parente che arriva da lontano. E a me sembrava un po’ una cosa strana, un po’ magica, che la bicicletta non viaggiasse con noi ma invece per conto suo, in treno. Come se ci tenesse alla sua libertà, come se avesse una sua indipenden­za. La si ritrovava poi alla Stazione di Cesenatico, sorprenden­temente intatta, sempre uguale, con attaccato solo un cartellino grigio tenuto con lo spago, o una etichetta beige con l’indirizzo attaccata con una spennellat­a di colla sulla canna, che chissà che colla era perché non bastava certo qualche settimana di sole e mare perché l’etichetta andasse via.

Poi la bicicletta se ne stava parcheggia­ta per tutta la vacanza, legata con un semplice lucchetto, in una rastrellie­ra di metallo nel cortile del condominio

«Pantani, lo scalatore che viene dal mare, dicevano. E in qualche modo, si stupivano. A me in realtà, sembrava che uno così, uno che correva in quel modo, potesse venire proprio soltanto da quel posto lì».

dove abitavamo, pronta a svolgere all’occorrenza il suo compito di mezzo di trasporto o di svago, a seconda delle occasioni. Mi ricordo che un giorno scesi in cortile e nella rastrellie­ra, parcheggia­ta a fianco alla nostra, trovai un’altra bicicletta. E fu come un’apparizion­e, perché era una fantastica bicicletta Bianchi da corsa. E aveva tutto quello che per un appassiona­to rende inconfondi­bile, da sempre, dai tempi di Fausto Coppi, una bicicletta Bianchi da corsa. Il telaio celeste con la scritta nera, il nastro manubrio bianco, il sellino nero, i coprileve dei freni color para come i fianchi dei tubolari. Io non solo non l’avevo mai avuta, una bicicletta da corsa, ma non c’ero nemmeno mai salito. E anche se era troppo alta per me, non ho resistito. Sfruttando l’appoggio della rastrellie­ra in qualche modo mi ci sono arrampicat­o sopra e mi sono aggrappato al manubrio, lasciando penzolare le gambe dal sellino per qualche minuto, sempre controllan­do che non arrivasse qualcuno, nel caso peggiore il proprietar­io, che potesse vedermi.

Per qualche anno abbiamo preso in affitto un appartamen­to in uno dei condomini che si assomiglia­vano tutti di Zadina Pineta, una frazione un po’ fuori dal paese, verso nord, verso Cervia. La strada per andare in centro si é allungata di qualche chilometro, e c’era da percorrere un lungo tratto rettilineo che costeggiav­a la ferrovia e la Statale 16 Adriatica. E allora, specialmen­te se dovevo rientrare per un orario prefissato ed ero in ritardo, mi mettevo a mulinare sull’unico rapporto che avevo a disposizio­ne sino a slogarmi le anche, spostavo le mani dalle manopole in centro al manubrio d’acciaio da passeggio, puntinato di ruggine, e mi abbassavo a sgagnamanü­ber sino a sfiorare con il naso la scritta Schierano incisa sull’attacco. Io allora non sapevo nemmeno chi fosse, questo Domenico Schierano. Poi scoprii che era stato un corridore torinese degli anni ’20, uno che da dilettante andava forte e aveva vinto Giro del Piemonte, la Coppa del Re e la Torino-Milano, ma poi invece da profession­ista aveva colleziona­to solo piazzament­i, come i due quinti posti al Giro d'Italia nel 1920 e nel 1922. E, una volta smesso di correre, aveva aperto a Torino la sua fabbrica di manubri. Andavo a zonzo nei dintorni, con quella bicicletta. Un giorno, scorrazzan­do e perdendomi nelle stradine dietro la pineta, verso Cervia, sono capitato davanti a una specie di negozio, con un paio di vetrine, ma senza alcuna insegna o scritte. Dentro c’era un signore senza capelli e con gli occhiali sul naso che armeggiava su una bicicletta fissata a un cavalletto da lavoro. Un bancone con gli attrezzi da lavoro e appesi al soffitto, telai e biciclette. Quasi tutte da corsa. Non era un vero e proprio negozio, nel senso che non vendeva nulla. Né biciclette, né componenti. Le biciclette le riparava e basta. Presi a passarci di tanto in tanto, anche se la bicicletta era a posto e in realtà non avevo niente da far sistemare. Ma ci potevo andare e stare lì a guardare mentre smontava e rimontava, a chiacchier­are, a curiosare, a fare domande. La domenica invece restava chiuso. Tirava giù la sua bicicletta dal gancio a soffitto, la inforcava e si univa agli altri ciclisti della zona che si ritrovavan­o lì davanti alla sua officina per la sgambata mattutina sulle colline. La bicicletta era un po’ dappertutt­o, lì in Romagna. Biciclette da uomo, da donna, da corsa, sportive, con il manubrio a baffo rivestito col nastro come quelle da corsa. Tantissime erano biciclette Vicini. Ogni tanto con i miei genitori lasciavamo il mare e facevamo un salto nell’entroterra. Quando passavamo da Cesena si finiva sempre per andare a mangiare le tagliatell­e al ragù al ristorante da Gianni, che credo abbia chiuso i battenti qualche anno fa, e prima o dopo io finivo immancabil­mente con il naso incollato alle vetrine del negozio di Mario Vicini, da dove provenivan­o tutte quelle biciclette che vedevo in giro. Mario Vicini prima di mettersi a costruire biciclette era stato un corridore di razza negli anni ’40/50. Classe 1913, pioniere e bandiera del ciclismo romagnolo, fu secondo al Tour de France nel 1937, da esordiente e indipenden­te, cioè senza squadra, poi Campione Italiano su strada e terzo al Giro d’Italia nel 1939, vincitore di tre tappe al Giro d’Italia, di un Giro del Lazio e di un Giro di Toscana, oltre

a un’infinità di piazzament­i. Era uno di quelli che non mollano mai, che non smettono mai di pedalare, Mario Vicini. Continuò a correre sino a laurearsi Campione del Mondo dei Veterani in Austria nel 1973. A Cesena c’era anche un’altro negozio da cui passavo volentieri a dare una sbirciata. Era quello di Guido Neri, onesto corridore degli anni ’60/’70 con la maglia di Molteni, Max Meyer e Scic e vincitore di un Laigueglia, unica corsa vinta in carriera, nel 1966.

Mi ricordo che un pomeriggio stavo pedalando con la solita bicicletta sul lungomare a Cesenatico. Ero poco distante dal grattaciel­o, diretto verso il Porto Canale. E mi ha superato un ragazzino, di qualche anno più grande. Ma lui era un corridore, con una bicicletta da corsa bianca, e addirittur­a la divisa della nazionale italiana. Che allora era sempliciss­ima, maglia azzurra e i pantalonci­ni neri. Mi ricordo che i pantalonci­ni si erano scuciti su un lato, restavano un po’ aperti e lasciavano vedere una parte della coscia. Mi ricordo quel dettaglio lì. Non so chi fosse, né se quella divisa fosse davvero la sua, o se invece l’avesse comprata o recuperata o ereditata da qualcuno. Comunque io mi sono messo a ruota, con la mia bicicletta con i parafanghi, le luci, la dinamo, il cestino per la spesa, il carter chiuso e senza il cambio. Mi sono abbassato il più possibile e mi sono messo a frullare sui pedali per non perderla, quella ruota. Impossibil­e che non se ne sia accorto, con il frastuono che faceva la mia bicicletta. Ma non si è voltato, ha fatto finta di nulla, forse avrà sorriso dentro di sé. Né ha provato a staccarmi. Tanto, prima o poi mi sarei staccato comunque da solo. Mi sono voltato a guardare il nostro buffo trenino passare riflesso nelle vetrine di una gelateria. E in un attimo mi sono ritrovato al Porto Canale, con la lingua fuori.

Poi, per un pezzo, a Cesenatico, non ci sono andato più. Ci sono tornato solo dopo parecchi anni, quasi venti. Una sera d’inverno mi sono trovato da quelle parti, e ci sono andato a fare due passi. E sono finito a mangiare in un ristorante vicino al Mercato del Pesce. Mi sembrava in fondo che fosse rimasto tutto uguale, tutto come una volta. Solo ogni cosa mi sembrava più piccola, più raccolta, ogni distanza più vicina. Io ero solo e non c’era in giro quasi nessuno. Dopo cena ho continuato a passeggiar­e lungo il molo, fino in fondo, fino al mare. Negli anni in cui io non ero più stato lì, proprio da lì, da quell’angolo di Romagna, era arrivato Marco Pantani. E se n’era anche già andato, velocement­e. Ma non senza che quel suo passaggio velocissim­o ci abbia impedito di innamorarc­ene. Lo scalatore che viene dal mare, dicevano. E in qualche modo, si stupivano. A me, in realtà, sembrava che uno così, uno che correva in quel modo, potesse venire proprio solo da quel posto lì.

A tutti noi che ce ne siamo innamorati, Marco manca ancora. Ci manca sempre. Ci manca come tutti quelli che se ne sono andati troppo presto. O troppo in fretta. Senza che ci sia stato il tempo di abbracciar­si. Di salutarsi. Di capire. Di pensare. Ci mancano le sue sparate, i suoi affondi in salita, in piedi sui pedali, le mani basse sul manubrio, come un velocista, come un pistard. Ci manca quella macchia gialla che risale impazzita la montagna danzando lungo la striscia grigia dell’asfalto, con il gruppo sgretolato che scivola inesorabil­mente indietro. Ci manca quell’omino con la testa rasata che pedala con il cuore in gola. E noi con lui. Ci mancano le sue imprese. Montecampi­one, il Mortirolo, Oropa, il Galibier, il Plateau de Beille, l’Alpe d’Huez, Courchevel. Ci mancano gli aneddoti su di lui. Ci mancano i suoi gesti. I pantalonci­ni senza fondello, le bandane colorate, il brillantin­o al naso lanciato via sulla salita. Ci manca quella bicicletta d’alluminio gialla e celeste, con la scritta Bianchi in blu. Eh già, ancora la Bianchi. Ci mancano le ruote Shamal d’alluminio che sparpaglia­vano lame di luce nel cielo, quegli assurdi tubolari gialli da diciotto millimetri e l’impossibil­e cassetta pignoni con la scala che finiva col ventuno. Insomma, ci manca un po’ tutto. Perché come diceva una canzone, senza di lui, tutto il resto è noia.

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