Nella terra dei Giganti
Un viaggio nato nell’immaginazione, leggendo le pagine di Walter Bonatti. In Patagonia, in cerca di avventura.
L’idea di questo viaggio nasce tra le pagine di un vecchio libro, in cui Walter Bonatti, alpinista ed esploratore italiano, descrive l’esplorazione di una terra remota e selvaggia. Un tempo abitata da mostri e giganti ancora oggi il suo nome evoca avventura ed esplorazione. Spinti dal suo racconto, ci ritroviamo a sorvolare l’Oceano Atlantico alla volta della Patagonia.
Giunti in prossimità della Cordillera delle Ande, scorgiamo dall’oblò dell’aereo un mondo alieno, che ci appare con la stessa forza e dirompenza con la quale questa terra doveva essere apparsa agli occhi di Ferdinando Magellano. La steppa patagonica, arida e sconfinata, i laghi San Martin, e quelli Viedma e Argentino, uniti dal tortuoso corso del fiume Rio Leona, il Rio Santa Cruz che dopo una corsa di 385 chilometri attraverso la steppa sfocia nell’oceano Atlantico, concorrono a disegnare un scenario unico e irreale. Sullo sfondo si ergono il Fitz Roy e il Cerro Torre, le maestose vette dello Hielo Continental Patagonico, un’enorme calotta di ghiaccio perenne, terza riserva idrica al mondo dopo l’Antartide e la Groelandia. Quegli ambienti a lungo immaginati e così minuziosamente descritti da Bonatti, improvvisamente emergono dalle pagine del suo libro e diventano realtà. Questo maestoso panorama ci accompagna fino all’atterraggio nel piccolo aeroporto di El Calafate, una cittadina argentina situata lungo le sponde del Lago Argentino, nella provincia di Santa Cruz, nella Patagonia meridionale.
Il centro di El Calafate si è sviluppato sulle esigenze del turista, mentre la periferia è più modesta, abitata prevalentemente da famiglie di nativi e lavoratori locali. Passiamo un paio di giorni in relax per riprenderci dal lungo viaggio, tra ottime empanadas argentine e birre locali. Il terzo giorno lo dedichiamo alla preparazione delle bici, invadendo il giardino del piccolo albergo in cui alloggiamo. Qui facciamo la conoscenza con Lukas, un geologo svizzero che incuriosito dal caos che abbiamo generato sul prato inizia a farci domande sulle strane bici e soprattutto sui teli gialli e neri arrotolati. Rimane a bocca aperta quando gli sveliamo che si tratta di packraft, canotti compatti e leggeri con cui abbiamo intenzione di navigare i bacini glaciali. Lukas conosce bene la Patagonia, sono anni che lavora qui, e ci mette in guardia sulle condizioni meteo estreme e mutevoli di questa regione: «A volte il vento è così violento che vi sentirete come bucare il volto dal pietrisco! Sulla superficie dei laghi si innalzano trombe d’aria e acqua di diverse decine di metri, in grado di mettere in seria difficoltà anche le imbarcazioni di notevole stazza». Sapevamo già della forza del vento che sferza questa regione, così come eravamo consapevoli della nostra limitata esperienza con questi mezzi. Avevamo infatti avuto pochissimo tempo per testare i packraft, essendoci arrivati una settimana prima della partenza per il Sud America.
L’ultimo Tehuelche
La mattina del giorno dopo si parte, ma prima di metterci in cammino decidiamo di prendere qualche empanadas da portare con noi. La panaderia La Familia è proprio di fronte al nostro alloggio ed è già aperta. Si tratta un piccolo forno a conduzione familiare, con l’insegna dipinta a mano sulla facciata color rosa, dove Josè, un ex-chef che si è messo in proprio, produce oltre al pane anche dell’ottimo cibo da asporto. All’interno il bancone del salato è vuoto. È domenica e in vendita ci sono solo i dolci. Ripiego su un paio di cornetti al cioccolato che Josè, dopo aver gentilmente rifiutato i miei soldi, mi regala augurandomi buena suerte per il viaggio. Josè è una brava persona, mi confida che deve lavorare duramente perché le condizioni economiche attuali non sono delle migliori. Dopo averlo ringraziato lo invito fuori per una foto ricordo, lo salutiamo, lui torna a lavoro e noi montiamo in sella. Dopo alcune pedalate, sentiamo Josè che ci urla qualcosa mentre ci corre dietro. In mano ha due cornetti anche per Giorgio. Viva l’Argentina!
Ringraziato nuovamente Josè lasciamo El Calafate percorrendo uno stradone sterrato che attraverso la steppa arida e ventosa ci condurrà verso le ande Patagoniche. Si fa fatica ad avanzare a causa del vento contrario e dal fondo tormentato da una moltitudine di sconnessioni che fanno saltare la bici come un cavallo imbizzarito. Il vento aumenta, sempre contrario al nostro senso di marcia, ricoprendoci di polvere. Pedaliamo senza parlare con il sibilo del vento costantemente nelle orecchie. Sono quei momenti in cui tendi ad estraniarti e la mente viaggia più delle gambe.
Ripenso al gesto di Josè e di quanto sia vero che le persone che hanno poco, sono anche le più generose.
Josè è un tipo corpulento, molto alto, cordiale, dallo sguardo buono e dai tratti somatici Tehuelche, i nativi della Patagonia. Nel 1520, durante la circumnavigazione del globo, Magellano li definì come Giganti, per via della loro sbalorditiva altezza. Fu per questo motivo che all’inizio la Patagonia fu chiamata Tierra des Gigantes e sulle mappe e nei libri comparvero le prime raffigurazioni dei nativi come veri e propri giganti. Ancora oggi si indaga per trovare le prove scientifiche dell’esistenza dei giganti patagonici avvistati da Magellano. A noi è bastato molto meno per capire che Josè, come anche gli altri nativi che abbiamo incontrato, sia gente di gran cuore, veri giganti della generosità.
Estancia, baluardo della vita semplice
Il vento si placa e il rumore delle gomme sulla ghiaia ci riporta su quello stradone che sembra non avere mai fine. La monotonia di quei momenti è rotta quando da un cespuglio spunta una lepre e attraversa la strada. In una frazione di secondo, un’aquila le piomba addosso, la afferra con gli artigli e in una nuvola di polvere la trascina a bordo strada, dove comincia a divorarla. Una scena cruda che, nella sua estrema naturalezza, ci introduce alla Patagonia più selvaggia. Siamo così vicini a quello splendido rapace che avvertiamo il rumore delle carni della lepre lacerarsi. Giorgio riesce a filmare e fotografare quel momento di vita e di morte, avvicinandosi come non si potrebbe neanche con un animale ammaestrato.
Nel frattempo il cielo si è oscurato e sopra le montagne verso cui siamo diretti lo scenario è
“Da queste parti, come a Capo Horn, gli uccelli si lasciano avvicinare fino a pochi passi; ignorando l’esistenza e il carattere dell’uomo non lo considerano, per istinto acquisito, una minaccia.” [WALTER BONATTI – 1971, PATAGONIA]
apocalittico. Minacciosi cumuli di nuvole, spinti dalle correnti oceaniche, si innalzano fino ad oscurare le vette andine del Hielo Continental Patagonico. Torniamo a spingere sui pedali tra quella sterminata steppa, popolata apparentemente solo da cespugli giallastri, quando, su alcune colline poco distanti, scorgiamo un branco di guanaco immobili che ci osservano incuriositi. La curiosità è reciproca, fermiamo le bici, scattiamo qualche foto, poi un grosso maschio ci viene incontro, frapponendosi tra noi ed il branco. Ci fissa per alcuni istanti, poi emette uno strano verso, a metà tra la risata di una iena e il nitrito di un cavallo, richiama il branco all’ordine per scomparire lentamente dietro la collina. Le Ande si fanno più vicine e finalmente rusciamo a percorrere alcuni chilometri ad una buona andatura. Così come era andato via, ritorna il vento, sempre contrario, portando con se anche un terribile fetore di carogna. Più avanti, a bordo strada, troviamo il corpo di un armadillo in avanzato stato di decomposizione, con la parte alta della corazza divelta e svuotato delle parti molli. Probabilmente il risultato dell’azione combinata di un’autovettura e di un condor andino, incontrastato dominatore delle alte vette patagoniche e il più grande rapace del pianeta con i suoi tre metri di apertura alare. Dopo aver attraversato questo vasto altopiano una rapida discesa ci riporta alla stessa quota del Lago Argentino. Il peso dello zaino incomincia a farsi sentire, ma l’immensa steppa patagonica è ormai alle spalle. Seguiamo una deviazione verso la valle in cui si insinua il braccio sud del lago. La strada si fa più stretta e, dopo qualche chilometro, termina nei pressi di alcune costruzioni rurali, rivestite con lamiere ondulate. Il tetto di color verde scuro e le pareti beige chiaro, fanno si che questa estancia, la tradizionale fattoria argentina, sia in armonia con lo splendido scorcio di Patagonia in cui è inserita. La luce è incredibile, ha qualcosa di magico, filtra tra le nuvole, risplende alle nostre spalle e si infrange sulle montagne delineando le sagome dei ghiacciai e le loro venature
celesti. Intorno regna il silenzio più totale, rotto soltanto dal cigolìo di un cancello lasciato aperto. Ci fermiamo davanti al capanno più grande. Poco dopo, forse incuriosito dalle nostre voci, ci viene incontro un gaucho, sui quarant’anni, basco consunto, volto scurito dal sole, sguardo fiero e deciso, braccia e mani possenti. Nonostante l’aspetto rude,
Mario, questo il suo nome, è una persona affabile e ci accoglie nell’estancia in cui lavora, invitandoci ad entrare nel capanno. Mario parla soltanto in spagnolo, ma riusciamo comunque a intuire il senso dei suoi discorsi. All’interno del capanno ci mostra alcuni vecchi utensili e macchinari che erano utilizzati già all’inizio del secolo scorso per la tosatura e il trattamento della lana. Ci racconta che la lana, una volta trattata, veniva caricata sulle carretas, enormi carri traniati anche da 18 animali tra cavalli e asini, per raggiungere il porto di Rio Gallegos, sull’Oceano Atlantico, dopo un viaggio di oltre venti giorni. Mario poi rivolge lo sguardo alle nostre bici, e, incuriosito, ci chiede dove siamo diretti. A gesti e con il nostro spagnolo improvvisato cerchiamo di spiegargli che abbiamo intenzione di esplorare la valle in direzione dei ghiacciai, utilizzando i packraft per attraversare le acque del lago. Non appena capisce le nostre intenzioni si precipita fuori dal capanno, facendo cenno di aspettarlo. Quando torna ha con se un libro, lo sfoglia velocemente e poi ci indica una vecchia foto in bianco e nero che ritrae un uomo su un packraft. Incredibile! La didascalia indica che si tratta di Eric Shipton, uno dei più famosi alpinisti ed esploratori inglesi, che nel 1958 a bordo di un piccolo gommone esplorò il Lago Argentino e il lago Viedma. Lo stupore è grande, ma lo è ancor di più la fame che ormai ci attanaglia e ci convince a passare la notte all’estancia per assaggiare l’asado, l’arrosto di carne argentina, piatto tipico della cultura gaucho.
La mattina seguente l’estancia è in pieno fermento e i gauchos sono già a lavoro: chi si allontana a cavallo per pascolare le pecore, chi doma i puledri nel recinto, chi si esercita con il lazo, chi raduna il bestiame.
Mario è il gaucho più capace dell’estancia ed eccelle in tutte le mansioni. Stamattina è impegnato nella mungitura delle vacche, orgoglioso del suo stile di vita e fiero del suo lavoro. Una cultura tradizionale argentina quella del gaucho che, nell’epoca digitale del tutto meccanizzato e del veloce a ogni costo, è a grave rischio di estinzione. Mario nota che siamo in partenza e ci viene incontro per salutarci: Buena suerte amigos! Ci stringe la mano energicamente mentre con l’altra regge il porongo, un contenitore realizzato con una zucca, dal quale gli argentini bevono il mate, l’infuso ottenuto dalle foglie di yerba Mate, una pianta originaria del Sud America. Prima di tornare al suo lavoro Mario ci mette in guardia da alcuni animali pericolosi che vivono nell’area in cui siamo diretti: il puma, conosciuto in Nord America con il nome di Leone di Montagna, e il Criollo patagonico un bovino selvatico che ha sviluppato, unica specie al mondo, la capacità di resistere alla rigide temperature invernali di questa regione. Facciamo fatica ad immaginare del bestiame fuori dai recinti di una fattoria, eppure questi incredibili animali sopravvivono nelle aree più remote ed estreme della Patagonia.
Mario ci dice che lo sbaglio più grande è quello di confondere questo bestiame con quello da allevamento. Questo bovino selvatico non è per nulla docile, è aggressivo ed è in grado di uccidere perfino un cavallo, caricando senza alcun motivo apparente, anche se soltanto si incrocia il suo cammino.
Il ruggito delle Ande
Percorriamo una vecchia traccia fuoristrada, che a volte si perde, nell’erba alta, lasciandoci alle spalle l’estancia. In poco tempo raggiungiamo un punto sopraelevato che ci permette di ammirare la sontuosa bellezza del posto. Le Ande, con i suoi ghiacciai, dominano la valle e le enormi masse nuvolose in continuo movimento ci regalano giochi di luci e ombre spettacolari. Più lontano, verso sud, dove la valle si stringe, compaiono arcobaleni di un’intensità mai vista prima che emergono dalle acque turchesi del lago e terminano tra le bianche vette dello Hielo Continental. Rimaniamo alcuni istanti
ad ammirare così vasta e selvaggia bellezza. Luoghi che rapiscono l’animo e lo portano in un’altra dimensione. In lontananza, a circa un paio di chilometri da noi, avvistiamo una spiaggia molto ampia e decidiamo di dirigerci lì per passare la notte. Scrosci improvvisi di pioggia e raffiche di vento si alternano a sprazzi di sole che bruciano la pelle, provocando notevoli sbalzi di temperatura. Siamo costretti a indossare e togliere più volte la giacca antipioggia. Raggiungere la spiaggia risulta cosa tutt’altro che facile. Avanziamo a fatica, a causa del terreno molto accidentato. Tra l’erba alta si nascondo due piante spinose che ci massacrano caviglie e polpacci. Il Calafate è un pianta simbolo della Patagonia, dalle foglie piccole e molto verdi, con bacche di colore blu dal sapore squisito, e dalle spine lunghe e dure. L’altra, di cui ignoriamo il nome, è piccola e cattiva, formata da esili ramoscelli pieni di corpuscoli piramidali, con quattro o cinque spine ognuno. Questi si ancorano tenacemente al tessuto delle calze, provocando piccole ma insopportabili lacerazioni sulla pelle, soprattutto quando finiscono all’interno dello scarpone. Siamo costretti a fermarci quasi subito per ripulire le calze, un’operazione che richiede molto tempo e cautela, poiché le spine possono spezzarsi e rimanere conficcate nell’epidermide provocando infezioni. Un lavoro inutile, perché dopo pochi passi abbiamo di nuovo le calze piene. Queste spine saranno un tormento continuo e assaliranno le caviglie ogni qual volta saremo costretti a scendere dalla bici e spingere. Onnipresenti e snervanti, fino allo sfinimento. Raggiungiamo finalmente la spiaggia, lasciamo a terra le bici, togliamo le calze, e immergiamo i piedi nell’acqua gelida per attenuare il dolore. Allestiamo il campo e mangiamo qualcosa davanti al fuoco acceso con la legna trovata in riva. Fa buio, il lago è immobile, all’orizzonte si stagliano una coppia di nuvole lenticolari e, subito sotto, la sagoma delle Ande. Il fuoco, unico ad aver voce, proietta sulla tenda le nostre ombre. Siamo soltanto noi e la Patagonia.
All’improvviso un boato incredibile scuote la valle, un rumore che atterrisce, simile a quello di un tuono, ma spaventosamente più violento, quasi un ruggito. Proveniene da dietro le montagne e si ripercuote sul suolo, risalendo dalle gambe fino alla cassa toracia. Ci convinciamo che si tratti di tuoni e che presto pioverà, decidiamo così di infilarci in tenda. Il tempo di spegnere le frontali e di nuovo quel boato cupo, questa volta sembra quello di un terremoto. Solo i tappi per le orecchie ci consentono di prendere sonno.
Navigazione a vista
Una raffica di vento dritta in faccia mi colpisce, come uno schiaffo violento, e mi sveglio di soprassalto. Ho la sabbia tra i denti, nelle narici, e non appena li apro mi finisce anche negli occhi. È il caos totale! Giorgio non è nel sacco a pelo, la tenda è aperta, altre raffiche di vento fortissime mi colpiscono nuovamente in pieno volto. Lukas, il geologo svizzero, non aveva esagerato quando ci disse …vi sentirete come bucare il volto dal pietrisco! Tolgo i tappi dalle orecchie e cerco frettolosamente la frontale. Gio’ dove cazzo stai?! Ma tra il rumore del vento riesco a distinguere solo quello delle onde. Sento l’acqua vicina, molto vicina. Poi Giorgio torna nei pressi della tenda e urla: Frà, qua è un casino! Dobbiamo spostare la tenda, ora! Mi infilo le scarpe e la giacca, esco fuori. L’acqua è a pochi centimetri dalla tenda. La forza del vento è pazzesca. Alziamo la tenda di peso, con tutto quello che c’è dentro e a fatica la spostiamo più a monte, ancorandola alle bici, ad alcune pietre e a dei grossi tronchi che abbiamo recuperato a riva. Il lago ribolle come posseduto da una forza oscura. Torniamo dentro, la sabbia è ovunque, nei sacchi a pelo, nei vestiti, anche nelle orecchie. È da poco passata l’una di notte, proviamo a riprendere sonno, ma non c’è verso. Il vento aumenta, sempre di più e schiaccia le pareti della tenda con una violenza inaudita. Il rumore è assordante. Accendiamo le frontali, siamo costretti per più volte a passare da sdraiati a seduti per sorreggere la paleria della tenda. La sabbia sospinta dal vento si infila sotto il telo antipioggia e penetra attraverso le fitte maglie della zanzariera. Non c’è tregua, non c’è fine. Il timore è quello di ritrovarsi senza tenda. Basta una piccola lacerazione e scoppierebbe come un palloncino. Sette lunghissime ore, tanto è durato questo inferno. Poi, verso le otto del mattino, tutto si calma, all’improvviso. Riposiamo per venti, forse trenta minuti, poi il sole e il caldo insopportabile all’interno della tenda ci costringono ad uscire. Giorgio si allontana verso il fiume per fare rifornimento di acqua, poco dopo sento che mi chiama, lo raggiungo e indicando a terra esclama Queste cosa sono secondo te? Sulla ghiaia vicino al bordo del fiume c’erano impresse le impronte di un puma. Un rapido sguardo tra l’erba alta per controllare la zona circostante, ma non avvistiamo nulla se non un condor andino che volteggia in lontananza.
Torniamo al campo, facciamo colazione e dopo aver assicurato le bici ai packraft decidiamo di proseguire in acqua. Le condizioni sono perfette anche se sulle vette si stanno addensando delle nuvole minacciose. Pagaiamo per un paio di ore, poi in pochi istanti il sole scompare, il cielo si fa plumbeo, torna la pioggia e con essa il vento, anche se meno violento della scorsa notte. Il packraft incomincia a scuotersi ed avanziamo con maggiore difficoltà. La visibilità è ridotta, dalla superficie del lago si alzano
«Procediamo attraverso questo paesaggio irreale, a volte pedalando a volte spingendo, senza rotta e senza tempo, guidati soltanto dall’ago di una bussola biologica che punta verso l’istinto».
nuvole d’acqua che ci colpiscono ripetutamente. È burrasca piena e decidiamo di approdare prima che la situazione peggiori. Giorgio tenta un approdo facendosi largo tra le fronde di un albero sommerso, ma siamo a ridosso di una parete rocciosa e per di più esposti alle raffiche di vento senza possibilità di riparo. Decidiamo quindi di tornare in acqua. La fatica per la notte passata in bianco si fa sentire. Proseguiamo in direzione sud seguendo un costone di roccia, sperando che si possa aprire su un buon approdo. Non abbiamo riferimenti, in quanto la morfologia del territorio era stata stravolta dall’innalzamento delle acque dovuto all’anomalo discioglimento del ghiacciaio Perito Moreno. Le mappe di cui ci servivamo per orientarci erano ormai inutilizzabili. Si fa una fatica incredibile ad avanzare, cercando di contrastare il vento, le onde, e soprattutto la corrente che ci spinge contro la parete di roccia che stiamo costeggiando. Intravedo Giorgio in lontananza che di tanto in tanto smette di pagaiare per far riposare le braccia, poi riprende. Faccio altrettanto, ma ogni volta che smetto di pagaiare la corrente mi spinge indietro e devo faticare non poco per recuperare la posizione in cui ero. Siamo allo stremo, a causa anche della notte passata in bianco, e le forze ci stanno abbandonando. Poi finalmente intravedo Giorgio alzare la pagaia in aria con le braccia tese, non riesco a capire cosa vuole comunicarmi, ma il gesto mi fa ben sperare. Pagaio con più forza verso di lui. Lo vedo finalmente che riesce ad approdare e poco dopo anche io tocco terra. È fatta! Ancoriamo i packraft utilizzando alcune rocce e montiamo la tenda in una piccola conca al riparo dal vento. Sfiniti ci infiliamo nei sacchi a pelo e crolliamo.
La riconquista dello spirito selvaggio
Ci svegliamo dopo quindici ore di sonno ininterrotto. Mai dormito così tanto in vita nostra. Prepariamo un pasto caldo che mangiamo finalmente al sole. Nonostante la mancanza di sentieri, riusciamo comunque a pedalare e proseguire l’esplorazione di questo angolo sperduto di Patagonia a confine tra il mondo reale e quello fantasticato dalle letture di Bonatti. Tra le pagine di quei racconti emergono prorompenti i paesaggi patagonici: i colossi di ghiaccio dello Hielo Continental si elevano sulle acque turchesi del Lago Argentino, dove l’addensamento di umidità e gli improvvisi raggi di luce innescano arcobaleni che incorniciano capolavori di straodinaria bellezza naturale. Si respira aria di vita vera, di libertà, di simbiosi con un mondo di cui facciamo parte, ma da cui troppo spesso siamo lontani, rinchiusi dentro recinti, allevati per seguire le regole dell’uomo.
Procediamo attraverso questo paesaggio irreale, a volte pedalando a volte spingendo, senza rotta e senza tempo, guidati soltanto dall’ago di una bussola biologica che punta verso l’istinto. Siamo trascinati da un qualcosa di primordiale e selvaggio, rapiti dalle incredibili sculture lignee che incontriamo di tanto in tanto, resti contorti di faggi modellati dal vento e vittime di incendi.
Ci addentriamo in una zona dove la vegetazione è ancora più fitta, quando un boato assordante ci sorprende. Più imponente e, se possibile, terrorizzante, di quelli che avevamo avvertito il giorno prima scambiandoli per tuoni. È il grido cupo di un’enorme valanga che si stacca dalle vette che ci sovrastano, si insinua tra i seracchi e risuona lungo le nostre gambe fino allo sterno. Piove, torna il sole, poi di nuovo la pioggia, mai visti così tanti arcobaleni in un giorno solo. Arriviamo in un punto in cui un fiume con molte ramificazioni ci sbarra la strada. L’attraversamento è reso difficoltoso dal fatto che il letto di questo fiume è composto da enormi massi e il rischio di
scivolare e rimanere intrapolati o, peggio ancora, di infortunarsi è molto alto. Qui puoi contare solo su te stesso. Indossiamo i sandali con chiusura a velcro e suola in gomma, per avere un buon grip sulle pietre e lasciare asciutti calze e scarponi. Attraversiamo non senza difficoltà questa distesa di massi, ci apriamo un varco attraverso degli arbusti e arriviamo in una zona aperta che sembra portare ad una specie di passaggio. Poco più avanti, tra due enomi macigni notiamo qualcosa muoversi. Avanziamo lentamente, poi all’improvviso ci immobilizziamo. Un massiccio esemplare di Toro Criollo, si erge davanti a noi, a circa venti metri. Ha il manto marrone chiaro, pelo corto, mentre il garrese e il cranio sono ricoperti da una folta e irsuta peluria. Il corpo è un insieme di fasci muscolari in tensione. Gli occhi piccoli, piccolissimi, si perdono nel cranio enorme. Un bestia selvaggia e aggressiva dalla potenza disarmante. Ci teniamo a debita distanza per non farci notare. Cerchiamo di prendere le macchine fotografiche dalle borse, ma al rumore delle zip, smette di mangiare, alza il cranio, sbuffa e ci fissa dritti negli occhi paralizzandoci. Riusciamo a scattare un paio di foto e a filmarlo. Poi inizia a innervosirsi, sbuffa nuovamente, stavolta con più rabbia, e con la zampa posteriore raspa violentemente sul terreno.
Siamo degli intrusi, non graditi e ce lo fa capire in maniera molto chiara. Arretriamo prima che decida di caricarci. La vista dell’uomo risveglia nell’incoscio la schiavitù subita dai suoi progenitori. È un fuggiasco ribelle, pronto a difendere il suo stato di libertà, lontano da quei recinti in cui fu rinchiuso per molti secoli. Non siamo al cospetto di un animale, ma all’incarnazione dello spirito selvaggio riconquistato. In questo angolo remoto ai confini del mondo anche noi ci riscopriamo fuggitivi, fuori dai recinti, più che mai liberi e selvaggi.