Colle Sampeyre 2.284 m
Il vento ha fatto il suo giro. Come previsto. Ieri all'alba soffiava in una direzione, oggi pomeriggio in quella opposta, ostinata e contraria. Dopo aver costeggiato il lungo e suggestivo lago di Casteldelfino, dandoci cambi regolari per fronteggiare Eolo, raggiungiamo il minuscolo comune di Sampeyre. È il paese che dà il nome all'omonimo colle, spauracchio di questo incredibile anello alpino. Ma se siamo arrivati fin qui, vuol dire che arriveremo fino in fondo, lo sento.
Il Sampeyre da Sampeyre misura 16 chilometri per un totale di oltre 1.300 metri di dislivello. Fate voi i calcoli su pendenza media e sofferenza annessa. Come se non bastasse, pedalata dopo pedalata ci accorgiamo che il colle è interamente avvolto da una nebbia sinistra: quella che ci ha risparmiati sul precedente Agnello, dove spesso è di casa, arriva tutta ora e chiede il conto. È fittissima, sale come vapore dal basso: sembra quasi che sia la terra di questo passo a produrla, forse per dispetto. In alcuni tratti si fatica addirittura a vedere. Mi vengono in mente le uscite invernali lungo i Navigli, a Milano, quando non si vede a un metro dal naso per colpa della scighera (la nebbia, in dialetto). Accendo le luci per farmi vedere da chi, eventualmente, salisse o scendesse. Ma non sale, e non scende, anima viva. In un attimo mi pare di essere piombato in pieno Medioevo. Se stamattina eravamo nel deserto, con beduini e tuareg, ora siamo nella brughiera, tra streghe e castelli. La carreggiata è stretta, nulla a che vedere con le ampie route francesi cui ci eravamo abituati. Il Sampeyre è mulattiera asfaltata. In stile Mortirolo, per intenderci. Si sentono rumori sinistri provenire dal bosco, la vegetazione è cupa e incombente. Tocca capire se spaventarsi o lasciarsi ammaliare dal fascino estremo di questo passo semisconosciuto al ciclismo. Non so perché, ma scelgo la seconda. Mi sento completamente a mio agio qui: una sensazione di benessere che mi è già capitato di provare altre volte, ma forse non così chiaramente, quando sono in presenza di luoghi selvaggi. È come se riuscissi a entrare in comunicazione con una dimensione interiore di me che altrove invece svanisce. Io e Max siamo d'accordo: ognuno deve salire del suo passo, senza guardare cosa fa l'altro. È l'ultima fatica questa, dobbiamo godercela e allo stesso tempo superarla, uscirne indenni e prenderne ciò che ci sa restituire. Tocca arrivare, completare l'opera.
Fantastichiamo di birre gelate e di cosciotti di agnello che ci attendono. Una volta, l'amico Davide Cassani mi ha detto: quando soffri in salita, pensa a cosa ti aspetta come ricompensa all'arrivo. La doccia calda, il cibo, un
buon letto, le chiacchiere. Ti aiuterà ad arrivare in cima. Sono le sei, un temporale si approssima, lo capisco dall'odore di terra bagnata e dalle raffiche di vento improvvise. Eppure il fascino del Sampeyre si manifesta in tutta la sua potenza proprio ora, in questo modo. Non toccherei e non sposterei un bel nulla di questo quadro perfetto. Vengo risvegliato dal mio sogno dal rumore borbottante di un'auto. È la prima che incontro: una piccola Fiat Panda rossa che scende. Chiedo al conducente quanto manca alla vetta: ci sei, mi dice. È dietro quella curva laggiù. E poi, improvvisamente, esco dalla nebbia. Si è diradata in prossimità di quel tornante. Sono sopra le nubi. Un mare di nubi, bianche e grigie, morbide e gonfie, che rotolano goffe l'una sull'altra. Mi alzo sui pedali, non stacco gli occhi da loro. Mi conducono fino in cima. È fatta, per la settima volta in due giorni sono sopra i duemila metri. Un'overdose di altura che dà innegabilmente alla testa. Con Max ci abbracciamo e ci guardiamo attorno felici. Sappiamo che l'incantesimo sta per esaurirsi. Ora sta a noi accoglierlo dentro di noi e portarcelo a casa, senza pretendere di essere necessariamente capiti. Una volta la cosa mi faceva arrabbiare tremendamente: chi non va in bici non riesce a capire perché per te è così importante. Quando tornavo a casa da una granfondo o da un giro alpino e mostravo in famiglia o agli amici le foto delle mie imprese, non riuscivo mai a trovare soddisfazione.
Ora so che è cosi. È difficile restituire certe emozioni ai non ciclisti. Del resto, non tutti sono obbligati ad avere la tua stessa passione.
A sera, in stanza, al buio, passo in rassegna le foto sul display dell'iPhone. Ne mando qualcuna dell'Agnello a qualche amico, altre della Bonette e della Casse Deserte a qualcun altro, scelto a caso dalla rubrica. Poi spengo, appoggio la testa al cuscino, morbido e profumato, chiudo gli occhi. So che faticherò a prendere sonno.
E sono indeciso: conto le marmotte del Fauniera o le nuvole del Sampeyre? Trovato: i camosci dell'Agnello.