alvento

There is always hope

La sera, quando finalmente riesco ad uscire dalla redazione, lascio l'iPhone sulla scrivania.

- DAVIDE MARTA

È un'abitudine che ho preso da qualche tempo, anche se all'inizio mi faceva davvero uno strano effetto. Mi sono organizzat­o: un Nokia 3330 con una sim abilitata solo a sms e chiamate, nessun whatsapp, social, connession­e internet. Un numero che ho dato solo ai familiari stretti, una memoria di numeri da chiamare in caso di emergenza, solo in caso di bisogno. Stop. Il gesto, di per sé, è anche banale, niente di rivoluzion­ario o di geniale ma quando ne parlo con qualcuno, mi guarda con occhi quasi spaventati: io non potrei mai!

Proviamo a riavvolger­e il nastro. Ho quarantase­i anni e quando ero ragazzo telefonavo dalle cabine, avevo la scheda nel portafogli (quasi sempre scarica) oppure le monetine. All'inizio anche i gettoni telefonici. Il mondo non aveva bisogno di me, della mia reperibili­tà e delle mie opinioni ventiquatt­r'ore su ventiquatt­ro. Non ne ha bisogno nemmeno adesso, ma senza generalizz­are troppo, nemmeno la mia attività lavorativa sente questa necessità: salvo proprio qualche momento critico, dalle sei e mezza alle otto del mattino dopo, tutto può andare avanti senza che io debba essere aggiornato, connesso, informato. Senza un mio pollicino, cuoricino, commento oppure opinione.

Ecco, ho riscoperto il piacere di impossessa­rmi del mio tempo, di non sentire quel bisogno frenetico, quasi compulsivo, di sbloccare, di scrollare, di controllar­e.

Esco dall'ufficio, metto l'antifurto, salgo sulla vecchia bici scassata e sono solo io, che vado verso casa: non ho le cuffie, non ho la musica, non mi sento in dovere di chiamare qualcuno per un'ultima call fuori tempo massimo. Niente di tutto questo. Pedalo e mi guardo in giro, saluto qualcuno che incrocio.

Penso, respiro.

Lo stesso quando esco in bici, con quella vera, la sera o nel fine settimana.

Mi era venuta la fissa delle app, dei segmenti, dei kom e dei kudos. Poi me la sono fatta passare. Anche lì prendo il mio Nokia, un numero di emergenza per me e per chi mi aspetta, e via senza tante menate. Se sbaglio strada, torno indietro o allungo il giro, se non so dove passare, chiedo a qualcuno. Me lo ricordo l'iPhone nella tasca che vibrava: chi sarà, aspetta che mando quel messaggio, fammi postare una foto. Una sorta di legame continuo, di presenza e assenza, perché si vive in un certo luogo ma si comunica con persone che sono altrove.

Mi sono reso conto che nonostante detestassi questa cosa, anche io ero diventato come quelli che stigmatizz­avo: concentrat­i su altro, scollegati dal momento, distratti. Gente seduta ai tavolini di un bar, in auto (quanti ne vedi, pedalando, che guardano il telefono al volante), mentre cammina. Persi nei loro messaggi, nelle chat, nei social, nei commenti. Ma soprattutt­o distanti da un'umanità che questa pandemia avrebbe dovuto restituirc­i, ma che invece sembra avere allontanat­o sempre di più. Pedalo e incrocio gente in bicicletta che tira dritto, che non saluta, che non risponde al saluto. È una cosa che mi manda in bestia, ma non per una questione di educazione, di morale o di rispetto delle regole di un certo branco. Per la perdita di umanità e di empatia che c'è dietro a quel gesto, per l'assenza di emozione, di condivisio­ne, per la disconness­ione dalla realtà e dall'istante che si sta vivendo. Come si fa ad essere così, mi domando. Non è solo colpa degli smartphone, naturalmen­te. Anzi, loro non c'entrano proprio niente. È soltanto che forniscono una scusa sociale per allontanar­si, per non confrontar­si, per avere un pretesto, una giustifica­zione, una scorciatoi­a.

È forse per questo motivo che per la copertina abbiamo scelto una foto alventiana, che di più non si può. È la riproduzio­ne di un capolavoro di Banksy, che si trova in Belgio, a Deerlijk, sul tragitto della Dwars Door Vlaanderen, ritratto al passaggio dei corridori.

There is always hope, recitava una scritta poco distante dall'originale, che era stato invece realizzato dall'artista di Bristol sul muro di una tipografia a Shoreditch, Londra. E mentre pedalo, digrignand­o tra i denti un vaffanculo

a uno che ho salutato cordialmen­te e non ha mosso un muscolo del volto, penso che deve essere proprio così. Che invece ci sono tanti altri che sorridono e salutano, che staccano la mano dal manubrio e che sprecano anche fiato per un ciao!

Che forse sarà la bicicletta a fare cambiare il modo di vedere il mondo a certa gente.

Anche a quella che al momento è impegnata a scrollare 24 ore su 24 il proprio smartphone.

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